Attorno al Castello Baronale, la Piazza d’Arme col pozzo, le case con le volte a botte ed a stella, e la chiesetta rurale di San Vito, con l’affresco della Vergine “Mater Mia”
Villaggio pressoché immutato da più di quattrocento anni, ed oggi come ieri piccolo e suggestivo, l’ultima famiglia di nove persone lo abitò sino al 1960, e nello stesso anno, nella chiesetta già parrocchiale intitolata a San Vito, si celebrò l’ultimo matrimonio. Distante una ventina di chilometri da Lecce ed assai vicino all’Adriatico, in tema con l’architettura a cavallo fra Medioevo e Rinascimento al quale appartiene, si presenta come un borgo in parte ancora fortificato, che i restauri ripropongono in maniera da ricalcare l’agglomerato così com’era quando venne costruito, nel mezzo del XVI secolo.
ROCA NUOVA
Se è Nuova, è perché prima ce n’era un’altra. Quest’ultima di cui assieme all’area archeologica dei periodi preistorico, messapico e romano, sopravvivono la Torre di avvistamento del Cinquecento, le rovine del Castello a picco sul mare ed il più tardivo (XVII secolo) Santuario della Madonna, è Roca Vecchia, protesa sul Canale d’Otranto, tra San Foca e Torre dell’Orso, tutte marine di Melendugno, che distrutta e diventata covo di pirati, attorno al 1480, venne abbandonata proprio a vantaggio della Nuova Roca.
Nel primo pomeriggio, quando il sole ancora stenta a tramontare dietro le ‘carrere’ ed i ‘tratturi’, che intersecando la ben più antica Strada Traiana, in direzione dell’altro approdo balneare melendugnese, Torre Sant’Andrea, s’inoltrano nella macchia mediterranea, in quella ch’era la Piazza d’Arme, il primo impatto e con un pozzo di forma rettangolare, i cui lati sono impreziositi da foglie di acanto lavorate nella pietra leccese.
La Torre del Castello con il pozzo in primo piano (© T.B.)
Ma a sorprendere, è la dirimpettaia Torre a tre piani del pur modesto Castello Baronale, alla quale un tempo si accedeva per mezzo di un ponte levatoio protetto da un fossato. Superato l’ingresso e volto lo sguardo agli artistici scudi appesi ai muri, che sebbene di fattura moderna, contribuiscono a mantenere viva l’atmosfera di quel passato storico, una scala stretta e ripida, conduce all’odierno terrazzo. Odierno perché al tempo della nascita del villaggio, era costituito da camminamenti e stanze con finestre e feritoie per le armi da fuoco, dalle quali, guardando in direzione del mare, era possibile avvistare le navi dei pirati, saracene in testa, pronte allo sbarco dei miliziani con le scimitarre, bramosi di razzie ed uccisioni.
Il portale (© T.B.)
Dal terzo piano della Torre, una delle sei della dirimpettaia fascia costiera, il mare si vede ancora, ma al posto delle navi nemiche, oggi si vedono le più rassicuranti montagne dell’Albania. Salvo un paio, così come è avvenuto per parti di mura ed abitazioni, maniero compreso, che per fortuna ha mantenuto un portale finemente lavorato, nei secoli, porte e finestre sono andate perse, pietra su pietra, portate via per costruire la vicina Melendugno.
Graffiti (© T.B.)
Come ogni Castello che si rispetti, anche questo di Roca Nuova aveva le sue prigioni. Grandi pochi metri semi ipogei, varcato l’uscio basso e stretto una volta chiuso a doppia e tripla mandata, sui muri sono ancora visibili i graffiti lasciati dai carcerati: fra questi, un sole, galeoni e brigantini, un San Giorgio a cavallo, e le tacche che scandivano il passare dei giorni.
Le antiche abitazioni (© T.B.)
Quanto al resto del borgo, la cui costruzione fonti storiche attribuiscono all’architetto militare Gian Giacomo degli Acaya, lo stesso del Castello di Lecce, disposte su due file divise da una strada che oggi diremmo essere il Corso di una città, sono altrettanti rettangoli di abitazioni, attorno ai quali c’erano altri due pozzi.
Frantoio (© T.B.)
Sul lato destro, subito dopo il locale nel quale era attivo il forno che dava il pane all’intera comunità, sono quelle con le volte a botte, le più antiche, e le altre con le volte a stella, risalenti invece al Settecento. Se tutte sono provviste di camino e buche per conservare le derrate alimentari, una ha anche il pozzo per l’acqua, ed un’altra, sicuramente occupata da una famiglia di rango, oltre al camino più grande, un piccolo giardino. Sull’altro lato, in un primo ambiente, sono i resti del frantoio con la macina per la lavorazione di cereali e legumi, ed a seguire, una prima abitazione a due piani, ed ancora, al di là del portone che doveva fungere da entrata alternativa del borgo, oggi chiusa da un cancello, una seconda casa.
LA CHIESA DI SAN VITO
L’architrave, oggi custodita nel Municipio di Melendugno, reca la data 1589, e ad essa, evidentemente, si rifà l’anno di costruzione, da parte di maestranze locali, della chiesetta rurale di San Vito, innalzata a due passi dal Castello, e ad esso collegata da un ponticello, così da rendere agevole l’accesso alla famiglia baronale ed a tutti gli altri fedeli del villaggio. L’interno è costituito da due ambienti di semplice fattura, il cui pavimento, un tempo aveva gli ossari per i bambini battezzati e non. Nel primo si trova l’altare del Santo raffigurato con un cane, e la parte anteriore, detta paliotto, incisa in latino.
Affresco (© T.B.)
Entrando, sul lato sinistro, nella piccola Cappella, accanto ad una finestrella, che per via della forma, è detta “a occhio”, spicca un affresco di gusto orientale, raffigurante la Vergine di Roca, conosciuta come “Mater Mia”. Datato 1420, oltre che per la Vergine rappresentata, quasi certamente è stato importato da Roca Vecchia. Nel secondo ambiente, adibito a Sagrestìa, resta invece un antico confessionale, che addossato alla parete, sul retro conserva pure una croce in legno. Al rintocco dell’unica campana del Campanile a vela, tipico di buona parte delle chiese rurali sparse nel Salento, una sola volta all’anno, il 15 di giugno, in occasione della benedizione degli animali per la ricorrenza di San Vito che di essi è il protettore, viene celebrata la Messa. Per il resto, di tanto in tanto, il villaggio ospita eventi di carattere culturale, ed in primavera, apre al pubblico per le “giornate” organizzate dal Fai, Fondo ambiente italiano.
La chiesetta rurale di San Vito (© T.B.)
A proposito di San Vito, è da sottolineare che il Santo si accompagna quasi sempre ad uno o più cani, perché da questi sbranato, ricomponendone le membra, ridiede vita ad un bambino. In ricordo del leggendario miracolo che sarebbe avvenuto al cospetto di un gruppo di pastori, una bella statua di San Vito, si trova nella Chiesa Madre di Regalbuto in provincia di Enna, intitolata a San Basilio.
LA CURIOSITA’
Se nel mezzo del XVI secolo, mentre andava formandosi la Nuova Roca, i rocani che si erano stabiliti nelle grotte lasciate dai monaci bizantini e negli anfratti marini, non esitarono a respingere l’offerta del Re di Napoli di ricevere in dono una casa per rifondare Roca Vecchia, in epoca moderna, più di uno si è invece dato da fare per vivere nella piccola e decentrata Roca Nuova. Il motivo è presto detto. Nel periodo borbonico (1734-1860), grazie alla normativa adottata per favorire lo sviluppo delle aree rurali e garantire allo stesso tempo la presenza di manodopera nelle campagne, il primogenito che aveva residenza nei centri con meno di 500 abitanti, era esentato dal servizio militare. E nel piccolo villaggio di poche case di Roca Nuova, di abitanti ce n’erano poco più di cento.
Toti Bellone
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Foto in alto: interno del piccolo maniero (© T.B.)