Cultura - 22 Gen 2021

Giulio Cesare Vanini, breve ritratto del libero pensatore salentino

Il letterato e filosofo originario di Taurisano fu condannato dalla Santa inquisizione per “ateismo”. Nel 1619 morì sul rogo a Tolosa.    


Spazio Aperto Salento

Nonostante il suo nome non compaia nel censimento dell’epoca, dai documenti pervenuti non sembrano esserci dubbi: Giulio Cesare Vanini aveva proprio origini salentine, e fu Taurisano a dare i natali al filosofo, accogliendo i suoi vagiti nella terra brulla e assolata della periferia del Regno di Napoli.

Tuttavia, l’incertezza e l’esiguità delle fonti storiche ci costringono, per molti versi, a sostare nel campo delle ipotesi. Convenzionalmente l’anno di nascita di Vanini viene considerato il 1585; trascorse i suoi primi anni di vita fra le mura del Palazzo taurisanese di via Roma, che all’origine presentava una struttura molto ampia, descritta dallo stesso filosofo nella sua opera De admirandis (Lutetiae, Perier, 1616). Molto particolare, e foriera di ulteriori ricerche, la lapide commemorativa posta sul lato sinistro del portone d’ingresso e fatta affiggere dalla Loggia Massonica (oggi il Palazzo è oggetto di ristrutturazione, al fine di realizzare un centro culturale per mostre ed eventi).

Di famiglia molto ricca, con uno stile di vita forgiato dal benessere e dall’abbondanza, il giovane Vanini crebbe in uno scenario storico e sociale dominato dall’audacia dello Stato sovrano, delle corti regie e baronali. Di quel periodo resta una forte testimonianza di un’edilizia rinascimentale fortemente identificativa, insieme ai retaggi del predominio spagnolo su tutta la costa tirrenica. Anche i rapporti con la Serenissima erano molto solidi. Ma la centralità di Napoli, nonostante la varietà delle riforme emanate e il rinnovamento delle risorse agricole ed economiche, finì per emarginare quella preziosa terra di confine che poteva essere il Salento, relegandolo a “quartiere” del Regno destinato al degrado e all’emarginazione.

Il giovane Vanini fu probabilmente prima spettatore di questo lento passaggio, e poi attore di primo livello, assorbendo i vantaggi di un’apertura culturale di indubbio valore e in seguito, dopo il trasferimento, subendo, ma sempre con estrema fierezza, il clima ostile delle polemiche a stampo religioso fino agli sviluppi a dir poco articolati che lo porteranno alla reclusione e, infine, alla condanna.

La ricostruzione della biografia del filosofo prende il via con l’iscrizione alla facoltà di Giurisprudenza di Napoli, nel 1599, ma probabilmente la sua formazione era già forgiata da una notevole ricchezza culturale che includeva la conoscenza perfetta del latino. Innegabilmente, però, è nella città napoletana che la vita di Vanini cambia il suo corso: inaspettatamente, infatti, a causa della morte del padre, subisce la perdita degli agi a cui era da sempre abituato, interrompe gli studi ed entra nell’ordine carmelitano. Fu in quegli anni che iniziò a pagare le conseguenze di un pensiero considerato eretico, la cui esposizione gli costò una punizione disciplinare che aveva senz’altro una portata pesante in termini religiosi e teologici. Inevitabile, quindi, ma certamente non risolutiva, la sua fuga all’estero.

Nonostante neanche in Inghilterra fosse riuscito a trovare la libertà e la pace interiore agognata, la rete di relazioni intessuta e la frequentazione dei maggiori centri universitari del posto alimentarono e vivacizzarono il suo pensiero che, per nostra fortuna, riuscì ad imprimere su carta attraverso due opere a noi pervenute, l’ Amphitheatrum aeternae Providentiae Divino-Magicum (“L’anfiteatro divino magico dell’eterna Provvidenza”) e il già citato De Admirandis naturae reginae deaeque mortalium arcanis (“I meravigliosi segreti della natura regina e dea dei mortali”).

 

Frontespizio originale del De admirandis

Se nel primo testo il suo intento era quello di difendersi dalle accuse di ateismo, l’obiettivo fallì miseramente, trascinandosi addosso nuove e più dure argomentazioni che lo additavano come panteista, rendendo assoluto solo uno dei tanti aspetti della personalità di Vanini, sicuramente un naturalista consapevole delle contraddizioni della Chiesa Cattolica che avrebbe meritato una valutazione a suo tempo più lucida e obiettiva.

Nel De Admirandis, la riflessione si sposta su un piano più analitico e critico, facendo emergere tutti i limiti delle credenze religiose, insieme al rifiuto di qualsiasi genere di autorità. Tuttavia, la narrazione vaniniana poco si adatta a una lettura immediata, che ne distorce inevitabilmente il profilo, come di fatto è successo diverse volte nel corso dell’analisi parziale dei suoi testi, colpevole di estrapolare frammenti di teorie e concetti che intenzionalmente sono stati catalogati all’interno di paletti ideali limitanti. In questo assunto, rientrano anche i rocamboleschi tentativi di sminuire il valore filosofico dei suoi scritti.

Al contrario, la dialettica vivace delle sue opere, in particolare la verve che fluisce nei 60 dialoghi con l’immaginario Alessandro, basterebbe a suscitare fascino e interesse nel lettore che è in grado di apprezzare la poliedricità e la complessità del personaggio, senza assegnare necessariamente un’etichetta al suo pensiero. Non c’è da stupirsi, quindi, se nel corso dei secoli questo processo sia stato lento e difficile, facendo passare Vanini per il filosofo libertino di turno, precursore dell’evoluzionismo di Darwin e del materialismo radicale che lo portò a morire, nel 1619, sul rogo di Tolosa.

In particolare, per la cultura italiana moderna, se in un primo momento il filosofo salentino ha rappresentato soprattutto il simbolo dell’anticlericalismo e della lotta politica, in seguito è riuscito ad acquisire anche l’importanza dovuta nel mondo laico e non specialistico, al quale Vanini era, fra l’altro, realmente rivolto, rischiarando il Sud con il lume di una ragione fortemente empatica e personale che ancora riesce a splendere, e perfino ad ispirare. A questo proposito non possono non essere menzionati i lavori degli studiosi nostrani Luigi Crudo e Francesco Paolo Raimondi, autori di una corposa traduzione che ha centrato l’obiettivo di recuperare e ridare dignità ai testi vaniniani, fino a renderli disponibili per una diffusione su larga scala.

Molti, però, sono ancora gli aspetti della sua biografia e del suo pensiero su cui far luce, ma questo rientra nell’ambito di una ricerca intellettuale che riguarda solo le personalità più interessanti e, forse anche per questo, meno accessibili. Anche il suo volto è offuscano da fitte ombre: esistono vari ritratti che lo riguardano, ma probabilmente nessuno rispecchia la sua reale fisionomia.

C’è chi sostiene che sia stato lo scultore Eugenio Maccagnani ad avvicinarsi di più alla realtà, quando nel 1886 ne ha scolpito il mezzo busto, eretto nella Villa Comunale di Lecce.

Mimma Leone

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Nell’immagine in alto: Raffaello Morghen, litografica Vanini (1817)

 

Villa Comunale di Lecce, mezzo busto di Vanini