Narrativa - 23 Dic 2020

“Lo scriba di Càsole, il segreto di Otranto”, una delle produzioni narrative più importanti del Salento

A distanza di 16 anni dalla pubblicazione del “romanzo storico” firmato dal giornalista e scrittore Raffaele Gorgoni, Antonio Scandone offre un approfondimento “critico” sull’opera  


Spazio Aperto Salento

Il libro Lo scriba di Càsole, il segreto di Otranto (Besa, 2004, pp. 201) del giornalista e scrittore Raffaele Gorgoni (in foto), riporta sotto il titolo di copertina l’indicazione di “romanzo”. E come tale deve essere letto, anche se è difficile sottrarsi alle suggestioni del saggio storico, o della ricostruzione erudita. Per cui ci sembra doveroso completare l’indicazione di genere dell’autore con la specificazione più appropriata di “romanzo storico”.

Permane tuttavia, a fine lettura, la forte impressione della vastità delle conoscenze erudite messe in campo dall’autore, che ben si armonizzano con l’ambiente di formazione del protagonista, nientemeno che la favolosa biblioteca dell’abbazia di Casole. Centro di raccordo e di interscambio tra la cultura orientale e quella occidentale nel periodo di massimo splendore della ricerca e della valorizzazione del libro, tra fine Umanesimo e inizio del Rinascimento.

Ciò che colpisce in questo romanzo, in effetti, è la vastità e la profondità della ricerca storica e documentaria che l’autore ha esperito nei campi più svariati della cultura pre-rinascimentale. Una panoramica di ricerca culturale orientale, bizantina, musulmana, religiosa, filosofica, politica, linguistica e, ovviamente, storica, con uno sfondo di bibliofilia che ne rivela la sicura dimestichezza e la indiscutibile competenza, compresa quella relativa alla pratica editoriale delle prime stampe europee.

Cultura ed erudizione profondamente vissute ed assimilate da Gorgoni, e non semplicemente acquisite e benevolmente elargite, che denotano l’impegno accurato dello studioso, il vaglio minuzioso delle fonti, e l’assimilazione soggettiva delle problematiche del tempo. Che però vanno intese nei loro valori universali, e quindi ancora valide per l’oggi e per l’umanità intera, e dalle quali l’autore fa dipendere gli equilibri politico-sociali, le ragioni esistenziali, le questioni basilari del mondo di allora ma anche di quello a noi contemporaneo, della vita e dei valori del nostro tempo. Cultura profonda, che è anche ragione di vita, e chiave interpretativa dei fenomeni storici e delle ragioni universali delle lotte e dei contrasti tra gli uomini, o meglio tra i poteri delle forze egemoniche, che nello specifico del romanzo si connotano, con valore metaforico, con quelle espresse dai due mondi allora contrapposti e antagonisti, quello dell’occidente cristiano e quello musulmano, che nel ‘400 ancora si contendevano aspramente la supremazia del Mediterraneo. Fino alla svolta risolutiva della battaglia di Lepanto del 1571.

Il sottotitolo “Il segreto di Otranto” rimanda, come è scontato, all’eccidio degli 800 martiri compiuto dai turchi nel 1480. Perché “segreto”? Perché il protagonista, Marco de Marco, un giovane scriba coltissimo e poliglotta che vive, studia e lavora nell’abazia di Càsole, assiste da lontano, da testimone diretto, all’imperversare di tale tragedia, ma senza riuscire a darsi una ragione del fatto terribile che vedeva svolgersi sotto i propri occhi. Per lui non si trattava tanto del mistero sulle ragioni recondite che avevano spinto le feluche turche sulle sponde del nostro Salento, della molla inspiegabile del loro accanimento su un borgo inerme e un lembo di territorio periferico che mai, per nessun motivo, avrebbero potuto occupare stabilmente.

Marco non si interrogava sulle motivazioni degli intrecci perversi di una politica regionalistica che portava i potenti dell’epoca, dal Papa ai Dogi della Repubblica di Venezia, o dal Re Ferrante di Napoli al Magnifico Lorenzo di Firenze o al Duca di Milano, ad allearsi occasionalmente, e scambievolmente, a danno degli altri Stati italiani,  quanto piuttosto sul mistero della forza imperscrutabile della fede, del perché gli otrantini avessero accettato il martirio sottoponendosi volontariamente al supremo sacrificio, che probabilmente si sarebbe potuto evitare con delle transazioni più pragmatiche.

Lui veniva da un’esperienza bibliografica di reciproco interscambio tra i due mondi separati dall’Adriatico, dalla dimestichezza con i testi e gli autori del mondo arabo e musulmano, dalla superiore cooperazione tra i cultori dello scibile dell’epoca, senza discriminazioni e senza confini, dalla universalità delle ragioni umanistiche. E non si capacitava alla vista straziante di tanto oltraggio.

Nella sua coscienza, tuttavia, si insinuava progressivamente anche il mistero del perché il Papa, insieme a Lorenzo de’ Medici e alla Serenissima, avesse voluto lasciare mano libera ai turchi perché assalissero le terre del Mezzogiorno governate dagli Aragonesi. Naturalmente si trattava di un segreto datato, contestualizzato, confacente alla mentalità ed alla sensibilità del giovane Marco, che aveva letto di tutto, aveva assimilato tanta parte dello scibile trasfuso in quei tomi della biblioteca di Casole, ma ancora non aveva sfogliato il libro della vita reale. Fra l’altro non aveva ancora letto il Machiavelli, e non era ancora giunto a comprendere “di che lagrime grondi e di che sangue” lo scettro di tutti i “regnatori”, non ne aveva enucleato la logica stringente sottesa ineluttabilmente alle ragioni implacabili del potere. Lì, su quegli spalti insanguinati delle mura di Otranto, Marco aveva fatto la sua prima reale conoscenza con il mondo. Ed era stato per lui un approccio devastante.

Dopo aver assistito alla inspiegabile uccisione di tutti i suoi confratelli di Càsole e alla distruzione dell’abazia, di quella che era stata centro di cultura e di mediazione tra le due sponde dell’Adriatico, e tra le tre fedi religiose monoteistiche dell’Occidente (cattolicesimo, ortodossia, islam), e dopo essersi gettato nella mischia ed aver combattuto sugli spalti di Otranto, il protagonista vede soccombere anche tutti i membri della sua famiglia. Fino a che, spinto dalla madre morente, scappa via da Otranto prima che questa cadesse definitivamente in mano ai turchi. E qui ha inizio la peregrinazione errabonda di Marco, che è al contempo l’itinerario forzato del suo processo di maturazione, in una serie di sequenze narrative da bildungsroman, da romanzo di formazione.

Da qui Marco, scampato all’eccidio e fuggendo da Otranto, trova rifugio dapprima a Lecce, in casa del Galateo; poi prosegue per Roma, quindi per Firenze e infine per Venezia, incontrando nel corso degli anni i maggiori esponenti della cultura, della politica e della storia rinascimentale italiana, e interagendo personalmente con ciascuno di essi, da Lorenzo de’ Medici al Machiavelli, da Manuzio al Poliziano, da Pico della Mirandola e al Savonarola, fino al re d’Ungheria Mattia Corvino. Insomma, attraverso le sue peregrinazioni politico-culturali, e trascorrendo compulsivamente le pagine avvincenti di questo romanzo, noi ripercorriamo dal di dentro la storia di quegli anni, comprendiamo le ragioni di certi esiti storici, penetriamo nel carattere dei protagonisti, interpretiamo i criteri profondi delle loro scelte, dipaniamo progressivamente le pulsioni di fondo delle loro politiche.

Ovunque si rechi, con qualunque grande personaggio dell’epoca il protagonista venga a contatto, egli è sempre ben accetto e rispettato, in virtù della sua profonda cultura e della conoscenza di tante lingue straniere, oltre che per il suo amore per i libri, che è anche la passione dell’autore.

E qui si ritrova anche la chiave di interpretazione di questo romanzo, che è data dalla intensa compenetrazione tra autore e protagonista della vicenda, sia sul piano intellettuale che su quello delle questioni esistenziali che entrambi si pongono. Al di là delle singole esperienze del protagonista Marco, infatti, si indovina la curiosità dello stesso autore, con i suoi dubbi, le sue domande, la sua tensione per la storia e per la verità, le sue esigenze esegetiche, le sue passioni e le sue contraddizioni.

Certo, come romanzo, come genere narrativo, il libro è forse ancora acerbo, perché vistoso è lo squilibro tra le istanze culturali, storiche, ideologiche, erudite, che prevalgono, e la materia narrativa, l’intreccio, lo sviluppo della vicenda personale del protagonista, la descrizione di fatti, luoghi e persone, che risultano sacrificati rispetto ad urgenze superiori. Così come squilibrata, anche sul piano strettamente narrativo, risulta la distribuzione delle sequenze esistenziali e delle vicende biografiche del protagonista, che a volte sembrano abbastanza gratuite e probabilmente forzate, come l’insistita minuziosità della descrizione dell’amplesso del cap. VI, che alla fine risulta del tutto surreale perché precariamente sospesa tra sogno e realtà.

Anche se l’autore è capace di distribuire con grande disinvoltura la materia narrata su piani diversi che impalpabilmente trascolorano gli uni negli altri, come nella parte finale del romanzo, dove con un ritmo incalzante si trapassa dal passato al presente, dalla prima alla terza persona, dal racconto oggettivo alla autobiografia, con una tecnica espressiva che ricorda il flusso di pensiero e le più ardite e riuscite pagine della letteratura sperimentale contemporanea, da Joyce a Svevo, a Virginia Wolfe, a Henry James, ecc.

In conclusione, una bella prova, una delle proposte più interessanti del romanzo italiano dei nostri giorni, una delle produzioni narrative più importanti del nostro Salento. Che, dopo l’impatto luminoso del Finibusterre di Luigi Corvaglia negli anni trenta del Novecento, attendeva ancora la degna riproposizione del romanzo storico di impianto salentino.

Nel corso della sua lettura, talvolta mi è venuto di pensare che, probabilmente, Gorgoni avesse scritto un libro più profondo, più pensoso e più problematico finanche de Il nome della rosa, il quale al confronto mi appariva solo come un riuscitissimo romanzo giallo. Ma, una volta sbolliti i turgori empatici di tale giudizio, ho dovuto ammettere che avevo ceduto semplicemente ad una indebita reviviscenza della comune consanguineità salentina. Ed ho chiesto scusa alla memoria solenne di Umberto Eco.

Antonio Scandone