Rubrica a cura di don Carmine Canoci
“Gentile direttore (di Avvenire, ndr.),
questa è una storia (non dissimile da tantissime altre, più o meno nascoste) e lei capirà perché devo chiederle di non firmare col mio nome e di non citarne alcun altro.
Mio padre era muratore pendolare stagionale con la Francia. Mia mamma (quarta elementare ripetuta tre volte, perché in Paese non c’era la quinta e per lei non c’era continuazione possibile degli studi) fece 10 figli. Quando il Partito (nazionale fascista) chiese la donazione dell’anello nuziale per la Patria, mia mamma si rifiutò e a chi obiettò – dicendole: «Ma come, ora che il Duce protegge la famiglia, cosa fai?» – lei rispose: «Io i figli li faccio per il Signore, non per il Duce!».
Eravamo molto poveri, economicamente, non di Fede, di cuore e, grazie a Dio, anche di cervello. Oggi nella discendenza di mio padre e mia madre (più di 80) ci sono lauree e master in medicina, ingegneria, lettere, storia, chimica, geologia, architettura, economia, design, teologia e musica di svariato genere e livello, e c’è tanto lavoro sparso nel globo (Argentina, Messico, tanta Europa, Giappone, Cina, Russia, Siberia…). Siamo tutti eterosessuali (senza orgoglio né umiliazione) e allineati al concetto di famiglia naturale (che oggi si vuol chiamare “tradizionale”). Le mogli non si vergognano di essere mamme considerate “figliatrici”, lavorano in casa e anche fuori e non usano ormoni per influenzare le proprie inclinazioni naturali e congenite.”
Lettera firmata
Da “Avvenire” di sabato 6 aprile 2019
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“Non si raccolgono fichi dalle spine,
né si vendemmia uva da un rovo” (dal vangelo)
Chapeau a una famiglia così e due volte ancora ai genitori di tale famiglia. Come condizione di partenza tante sono le famiglie che si identificano con questa, volutamente anonima. In tempi andati non era per nulla semplice portare avanti dieci figli (condizione non tanto eccezionale in passato), senza impedire la realizzazione dei loro sogni, ma è facile capire come anche loro abbiano dovuto faticare non poco, prima che nello studio nei lavori domestici o altri analoghi, per realizzarli.
La fatica, questa severa maestra di vita per niente inseguita o emulata. Per lei non si fanno peani, non si richiede il suo autografo come alle star di ogni avventura umana del nostro tempo, anche se proprio tali “eccezionali avventurieri” (v. citazione) l’hanno frequentata con volontaria assiduità.
Viviamo invece, nella realtà più predominante, il tempo dell’abiura del sacrificio (fratello gemello della fatica), il tempo del disimpegno, delle mezze misure, del minimo sforzo.
È venuta meno la sinergia educativa garantita in passato dalla società in genere e dalla famiglia in particolare.
Il valore dell’impegno sudato è sfrattato dalle case degli uomini, non c’è tempo da dedicargli. Questo, come altri valori, latitano perché non sufficientemente seminati e ancor meno fatti vedere.
Altro sembra interessare: pretendere e decidere di essere migliori e primi un po’ dovunque senza alcuna goccia di sudore (che dire di genitori che assalgono docenti colpevoli di aver rivolto un rimprovero al bimbo perché non ha studiato, o chi, allergico alle liste di attesa, usa la violenza nei confronti di medici e infermieri). Chi può permetterselo pretende che il piccolo ancora piccolo impari la lingua inglese, sappia usare il cellulare, l’iPhone… camuffati da giocattoli. Importante che emergano, poco importa con quali metodi e con quale stile.
A me personalmente intristisce la soddisfazione, a volte sguaiata, esibita da genitori e nonni per la prima parolaccia farfugliata dal loro infante. La goffaggine ha preso il posto della grazia, l’amorale quello dell’etica, la rozzezza quello dell’estetica.
Penso proprio di dare ragione a chi dice che oggi le figure genitoriali sono figure sbiadite, deboli, inferme. Sommergono il fanciullo di cure e attenzioni, non realizzando il suo bene, il quale, iperviziato, ipercoccolato, iperprotetto si trasforma in un bambino padrone, poi in un adolescente tirannico e, infine, in un adulto inetto, non abile nello stare al mondo, privo di senso del limite.
Le generazioni del passato buio, scomodo, per niente accomodante cui fa riferimento il testo inziale (v. citazione), sono state felici perché hanno sofferto, hanno acquisito, a proprie spese, le regole del giusto vivere e convivere. Tali regole, se pur loro imposte o autoimposte, si sono rivelate necessarie per procurarsi il pane perché si era affamati. Molti hanno poi fatto del bene perché hanno imparato come si fa da chi era prima di loro. E sempre grazie alle regole sono stati in grado da soli, pur cadendo tante volte, di rialzarsi e non c’era nessuno alle loro spalle pronto ad evitare loro il crollo.
È stato questo l’humus naturale dal quale sono nate le eccellenze di cui andare fieri (v. citazione).
Oggi invece…
“Facciamo finta che…tutto va ben, tutto va ben.
Facciamo finta che… tutto va ben”.
don carmine canoci