Una cartolina ritrovata per caso e il libro di Giuseppe Scandone e Luigi Simmini: echi del passato a 80 anni dalla proclamazione della fine della guerra
«Cari genitori vi scrivo questa mia cartolina facendovi sapere che godo ottima salute come spero di voi tutti di famiglia buone notizie. Genitori io sono dispiaciuto che non ricevo vostre notizie. Mamma devi dire una messa alla Madonna del Rosario non altro. Saluti e baci tutti di famiglia. Uccio».
Queste le poche parole in un italiano un po’ stentato (vedi foto in alto), che il 13 febbraio 1944, il Caporal Maggiore Antonio Martina, invia alla sua famiglia dallo Stalag IX A. Una cartolina in franchigia (indirizzata al padre Francesco) che, partita dall’Assia (Germania) nel febbraio del 1944, probabilmente non è mai arrivata alla famiglia, ma che attraverso strane combinazioni del caso è giunta nelle mie mani e quindi in qualche modo, è arrivata a Salice.
La cartolina di Antonio Martina
La firma dell’Armistizio con le truppe Alleate avvenne il 3 settembre 1943, ma fu reso noto solo l’8 settembre, cogliendo impreparate e prive di direttive le forze armate italiane in quanto non vi erano ordini o piani e non sarebbero arrivati neanche nei giorni a seguire. In quei giorni con il totale disorientamento delle forze armate, i tedeschi della Wehrmacht e delle SS presenti in tutto il territorio nazionale, occuparono i punti nevralgici dell’Italia settentrionale e centrale sbaragliando il nostro esercito. I soldati italiani sbandati che non erano riusciti a rientrare al loro domicilio, a seguito dei rastrellamenti delle truppe tedesche, vennero catturati, disarmati e obbligati a scegliere di continuare a combattere aderendo al Terzo Reich oppure alla Repubblica di Salò, ufficialmente proclamata da Mussolini il 18 settembre 1943. Circa 650.000 soldati, avendo rifiutato di aderire ad una delle due opzioni imposte, furono condotti in prigionia.
Dopo un viaggio in condizioni disumane, che poteva durare anche dei giorni, giunti nel lager di destinazione i prigionieri venivano sottoposti ad un processo di immatricolazione che comprendeva l’assegnazione di un numero identificativo (che sostituiva il nome), inciso anche su una piastrina di riconoscimento accanto alla sigla del campo in cui erano stati collocati; il rilevamento delle impronte digitali; l’annotazione dei dati personali; lo scatto di una fotografia. I lager erano sparsi in tutta Europa ma soprattutto in Germania, Austria e Polonia.
Il Caporal Maggiore Antonio Martina era stato assegnato allo Stalag IX A Ziegenhain, il più grande campo di prigionieri di guerra nell’attuale stato dell’Assia, dove vennero internati più di 53.000 prigionieri di guerra di varie nazionalità: oltre che italiani vi erano olandesi, belgi, britannici, serbi, americani, polacchi e francesi, tra cui il futuro presidente francese François Mitterrand. La maggior parte dei prigionieri di guerra dovette svolgere lavori forzati fuori dal campo, nell’agricoltura o nell’industria (principalmente degli armamenti).
Nel sito storico di questo lager, nel 2003, è stato inaugurato il Museo e Memoriale di Trutzhain che comprende un’ampia area esterna con l’ex strada del campo, le sue baracche e due cimiteri. Esso rappresenta uno dei principali luoghi della memoria nazista in Assia.
Nel 2007, edito da Lares Edizioni, è stato pubblicato il volume “Diari di guerra. Salice Salentino nella Resistenza” in cui sono raccolti i diari di Giuseppe Scandone e Luigi Simmini, altri due soldati di Salice che dovettero affrontare le conseguenze dell’8 settembre. Giuseppe Scandone come Antonio Martina, venne catturato dalle truppe della Wermacht e dopo breve tempo vide mutare il suo stato da prigioniero a I.M.I., ossia Internato Militare Italiano. Al fine di poter avere mano libera nella gestione e utilizzo dei prigionieri, i militari italiani catturati dai nazisti, con un provvedimento di Hitler, vennero definiti come IMI, una categoria creata appositamente, non prevista nei trattati internazionali che li sottraeva di fatto alle tutele previste dalla convenzione di Ginevra del 1929. Questo consentiva quindi di poterli destinare come forza lavoro per l’economia del Reich, soprattutto nell’industria bellica ma anche nell’industria pesante, in quella mineraria, nell’edilizia e nel settore alimentare.
Giuseppe Scandone, catturato in Croazia dove dal giugno del 1942 era mobilitato con la 336a Legione Carabinieri Regi, dato il ruolo di carabiniere e non semplice soldato sbandato, era stato internato a Vienna, presso il Lager A 1833, uno dei meno disumani. Il suo diario inizia ad essere compilato ai primi di marzo del 1944 e si conclude a fine settembre dello stesso anno. Quello di Giuseppe Scandone è un vero e proprio diario compilato nel momento in cui i fatti erano vissuti. In queste pagine descrive il lager, che era una scuola adattata allo scopo, la sua camerata, la n. 20, composta da 15 letti a castello in cui erano sistemati in 30 persone, 2 tavoli e 4 panche; descrive i suoi compagni, i superiori, i lavori a cui erano addetti, la città e i civili con cui entravano in contatto lui e gli altri soldati.
Ad una lettura superficiale, il quadro che viene narrato non fa pensare a una situazione di gravissimi patimenti, tant’è che le possibilità di muoversi in autonomia per la città davano anche modo di far sbocciare amori tra i soldati e le donne viennesi, ed anche Giuseppe restò colpito dalla bellezza e dolcezza di una fanciulla del posto, senza che diventasse un vero e proprio amore. Giuseppe però oltre parlare della buona popolazione, dell’amenità del paesaggio primaverile, della bellezza delle fanciulle, parla della scarsità di cibo che porta i più sfacciati e coraggiosi, ad andare a suonare alle porte dei civili per farsi dare qualcosa da mangiare, parla delle contese e delle zuffe che si scatenavano alla consegna dei viveri o alla distribuzione dei pasti quotidiani.
Quello che traspare è soprattutto la miseria umana a cui erano ridotti, una miseria che spingeva a lotte nella neve per accaparrarsi il pacchettino contenente i pezzi di pane che i civili lanciavano ai prigionieri dalle finestre, oppure a frugare tra gli scarti trovati in giro e il disappunto di lasciarsi andare a tali gesti, alla perdita della dignità personale. Probabilmente per un senso di pudore e decoro, ma sicuramente anche per un suo connaturale ottimismo o tendenza a non lasciarsi vincere dagli eventi, Giuseppe non si abbandona mai a grosse lamentazioni e tende a vedere e raccontare sempre ciò che di positivo è possibile trarre dalle persone e dagli eventi. La nostalgia di casa e dei familiari, l’anelito di poterli riabbracciare presto, è sicuramente ciò che più lo affligge e non riesce a tacere. La gioia più grande fu l’incontro con un compaesano, Mino Rosato, arrivato insieme ad un gruppo di internati di un altro campo che, improvvisati attori, di esibivano in uno spettacolo teatrale presso il suo lager. I due trascorsero solo poco tempo insieme e ne trassero gran beneficio al cuore, probabilmente o soprattutto Rosato che fino a quel momento non era riuscito ad avere mai notizie dei suoi e per questo era molto triste.
Luigi Simmini invece, compila delle memorie, quindi a distanza di tempo degli eventi e inizia la sua narrazione raccontando i fatti e gli stati d’animo sin dai giorni antecedenti la partenza per il fronte. Egli aveva 19 anni, da un anno era fidanzato con Rosina, doveva adempiere agli obblighi di leva, non si era mai allontanato dal paese e ora c’era anche la guerra: una traumatica partenza verso l’ignoto e verso grandi pericoli. Per aiutarlo, affinché potesse affidarsi loro per ottenere protezione e aiuto nei momenti di bisogno, la nonna confezionò per lui una sorta di collare di stoffa pieno di medagliette, immagini della Madonna e di santi, cosa a cui Luigi non mancò di fare ricorso nei tanti momenti gravi che avrebbe vissuto.
La mattina del 17 gennaio 1942, Luigi partì in treno da Salice verso Lecce, dove prese la tradotta che lo condusse a Verona, per essere incorporato al 79° Reggimento Fanteria. Quel viaggio nella notte in treno, al buio, dato l’obbligo di oscuramento, lo mise subito alla prova in quanto qualche scellerato compagno gli sottrasse la valigia contenente i pochi indumenti, i viveri e il necessario per la pulizia personale e per scrivere che con amore, la mamma e la sua fidanzata gli avevano preparato. Rimase quindi privo di tutto e fu costretto sacrificare i pochi soldi che aveva con sé per poter acquistare quanto di necessità. L’amarezza, la solitudine e il freddo che pativa non fiaccarono comunque il suo animo e presto riuscì a farsi apprezzare dai superiori e a frequentare vari corsi di addestramento nell’ansia di ampliare le proprie conoscenze in tutti i campi. Sin dalle prime pagine le parole di Luigi Simmini sono anche un composto j’accuse nei confronti dell’ideologia fascista che attraverso la scuola, le parate e il servizio pre-militare, lo aveva educato al sacrificio, al silenzio, alla assenza di ogni «confronto con altri popoli o sistemi, conoscevamo solo quel modo di preparazione alla vita, ossia alla logica di guerra, nessun’altra regola di civile convivenza (…). Quindi guerra contro tutti (…). Come se fossimo predestinati solo a fare la guerra una missione diabolica (…). Eravamo entusiasti e persino disposti al sacrificio per la Patria, ignari dell’errore storico che stavamo consumando».
Il regime vacillava, l’insofferenza dei civili e delle truppe sempre più alta, il cibo scarseggiava per tutti, mancavano armi per l’esercito ed era iniziata la lotta partigiana. Nel frattempo a Luigi viene offerta la possibilità di passare nell’Arma dei Carabinieri, che lui coglie anche perché il corso che doveva seguire si svolgeva a Bari e questo gli offriva la possibilità di trascorrere un po’ di tempo con la sua famiglia. Finito il corso da Carabiniere viene inviato nei dintorni di Gorizia e Trieste, zone molto pericolose per le efferate lotte partigiane e per i ribelli presenti tra la gente di confine. Era una realtà estremamente pericolosa, dove «eravamo solo succubi di ordini crudeli e spietati. Oggetto di aggressioni sterminanti. Una guerra fratricida. Si versava sangue copiosamente. Si distruggevano villaggi opere pubbliche e private senza scrupoli (…). Si sparava e si moriva, si combatteva e si uccideva atrocemente, senza tregua».
Luigi racconta anche dei due bombardamenti più importanti che aveva vissuto, quello nell’inverno del 1942, alle Caserme di Borgo San Paolo a Torino, in cui era alloggiato, e quello avvenuto a Salice il 2 luglio del 1943, dove si trovava per un periodo di convalescenza in seguito alle ferite riportate in un terribile attacco partigiano. Quel giorno, nonostante la guerra in corso, si festeggiava comunque la tradizionale fiera annuale e mentre si celebrava la messa presso la Chiesa del Convento, si spensero le luci e i fedeli, comprendendo il segnale di allarme, fuggirono in preda al panico, mentre il celebrante continuò impassibile ad officiare la Messa. Cessato il terrificante rombo degli aerei, degli spari delle mitraglie, il boato delle bombe e dissolta la nuvola di fumo e di polvere che aveva avvolto tutto il paese, si constatò che non vi erano stati feriti e questo non potè fare altro che fare gridare al miracolo che la Madonna della Visitazione aveva operato sul suo popolo fedele.
Nei giorni successivi si ripeterono combattimenti aerei e Luigi ancora non del tutto guarito fu costretto a rientrare al suo reparto di provenienza nella zona di Gorizia. Il clima era sempre più terribile e il 25 luglio il fascismo crollò ma, come disse il Generale Badoglio «la guerra continua» e l’esercito accanto al quale si era combattuto fino a quel momento diventò nemico. I militari italiani si trovarono in una posizione a dir poco scomoda, considerati nemici sia per i tedeschi che per i partigiani, senza ordini, senza disposizioni e senza alcuna guida, combattuti dal dubbio che il loro operato fino a quel momento fosse stato vano e ancor di più sbagliato, immorale, da rinnegare, ma questo per un militare si sarebbe configurato come un tradimento alla Patria. Con questi pensieri Luigi, fermato dai partigiani e da questi disarmato e privato di equipaggiamenti, vestiario e persino del collare portafortuna regalatogli dalla nonna, con la paura costante di essere ucciso dai tedeschi o dai partigiani oppure dalle popolazioni di confine, animato dall’unico sentimento veramente forte e incrollabile, ossia l’amore per la propria famiglia, si avviò verso l’unico posto che poteva considerare sicuro, il paese natio.
Con mille disagi, con lunghi cammini a piedi o mezzi di fortuna, avendo come unica fonte di sostentamento il cibo che si riusciva a mendicare tra la popolazione, oramai ridotto in pessime condizioni fisiche e morali, finalmente giunse a casa. Una volta recuperate le forze Luigi si presentò ai Carabinieri e, regolarizzata la sua posizione, fu assegnato a un reparto di “Pronto Intervento” che operando nel territorio di Lecce, aveva il compito di sedare disordini, rivolte e proteggere sia le istituzioni che i civili.
Un nuovo incarico giunse e un nuovo trasferimento, questa volta al Reparto di Assistenza ai profughi aggregato all’8a Armata Britannica con il compito di dare assistenza alle popolazioni che venivano evacuate man mano che procedeva l’avanzata degli Alleati. Finalmente il 25 aprile giunse il proclama della cessazione della guerra, ma per Luigi non era ancora il momento di fare ritorno a casa, ancora una destinazione lo attendeva, San Candido, dove la presenza di popolazioni di lingua tedesca e finanche di militari tedeschi armati, creavano un clima di paura e di ostilità, superato solo dopo l’intervento dei paracadutisti della “Nembo”.
Ristabilito l’ordine anche in quelle terre di confine, arrivò l’ultimo incarico, quello di dare supporto alla vastissima tendopoli e baraccopoli di Pescantina dove venivano accolti, rifocillati, ripuliti e curati i militari rimpatriati dai vari fronti e che poi, dopo le prime cure, venivano inviati finalmente alle loro case. Le memorie di Luigi Simmini si concludono con la narrazione della sua attività in questo campo, delle terribili condizioni in cui arrivavano i soldati e del lavoro estenuante ma soddisfacente che lui svolgeva insieme a tutto il personale del campo.
Quattro storie di soldati salicesi Antonio Martina, prigioniero presso lo STALAG IX A Ziegenhain, che invoca una messa alla Madonna del Rosario, quella di Giuseppe Scandone prigioniero nel Lager A 1833 a Vienna, che cerca di conservare la sua dignità di persona e trascorre le sue giornate lavorando come operaio nei cantieri della città, quella di Mino Rosato prigioniero in un campo vicino Vienna, triste perché non ha notizie della sua famiglia, quella di Luigi Simmini che, scampato alla cattura dei tedeschi e graziato dalla furia dei partigiani, ritorna nei ranghi dell’esercito e si adopera nelle difficilissimi fasi della transizioni del fronte e della conclusione del conflitto.
Quattro pagine di quella Storia che si legge nei libri, composta dalle piccole storie delle persone che l’hanno scritta e che a Salice si lega anche a quella dei Partigiani e dei Caduti che hanno dato il contributo alla costruzione di una nuova Pace. Una storia che su Salice deve ancora essere scritta e sembra sempre più difficile poterlo fare in quanto i testimoni di quel tempo sono sempre meno e non è possibile neanche fare ricorso a fonti scritte data la situazione di parte dell’archivio storico del Comune di Salice. Infatti, stando a testimonianze, fino alla seconda metà degli anni ’80, l’archivio era rimasto a lungo abbandonato in un deposito approssimativo in un locale del Comune finché, ai primi degli anni ‘90, si procedette ad una attività di pulizia da polvere e guano depositatosi nel corso del tempo, realizzando una prima attività di organizzazione e catalogazione della diversa e varia documentazione disponibile. Quest’ultima fu in seguito traslata (con l’utilizzazione di contenitori approssimativi) in altri locali e subì un incendio. Dopo questo evento, i resti furono spostati nei locali della ex biblioteca e nuovamente si cercò di metterli in ordine; ma un nuovo evento tragico si abbattè su quelle misere carte: un allagamento dei locali in cui erano depositati i sacchi che li contenevano. Completata di nuovo la sistemazione della documentazione superstite a quella sequenza di “tragici” avvenimenti, l’archivio fu definitivamente chiuso e abbandonato. A distanza di circa 35 anni da quando si fece un primo tentativo di organizzazione dell’archivio, ancora oggi non è conosciuta la consistenza dei documenti residui, ma si spera che, con l’apertura della nuova Biblioteca di Comunità (a quanto sembra ormai prossima) il tutto possa finalmente diventare patrimonio a disposizione di studiosi, ricercatori e cittadini.
Luisa Mogavero
© Riproduzione riservata
Municipio di Salice (atrio interno d’accesso), lapide con i nomi dei Caduti nella Seconda guerra mondiale
Ziegenhain, Stalag IX A