Arte contemporanea - 11 Mag 2025

“Eravamo innamorati del vero”, i capolavori di quattro pittori pugliesi al Must di Lecce

L’esposizione comprende 48 opere di De Nittis, Toma, Netti e de Nigris. Rimarrà aperta fino al 18 ottobre 2025, dal martedì alla domenica, dalle ore 9 alle ore 21


Spazio Aperto Salento

Ideata da Claudia Branca, direttrice del Must, e curata da Isabella Valente, con il patrocinio del Ministero della Cultura, la mostra “Eravamo innamorati del vero”, in corso nelle sale del “Museo Storico Città di Lecce”, rappresenta un’occasione unica in cui i capolavori di quattro maestri pugliesi – Giuseppe De Nittis, Gioacchino Toma, Francesco Netti e Giuseppe de Nigris – si incontrano nel territorio salentino dipanandosi in un percorso espositivo di qualità storicoartistica, che punta a rendere l’iniziativa una tappa dell’attrattività culturale e turistica leccese.

Le varie mostre realizzate al Must dalla riapertura post Covid nel 2021, anche se molto diverse le une dalle altre, presentano un filo conduttore comune: il territorio. Infatti «L’idea originaria della mostra, poi accolta e sviluppata dalla professoressa Valente, fonda le sue radici nella volontà, che si riflette in tutta l’attività del nostro museo, di ricercare e rivendicare l’identità culturale e artistica di un territorio. La nostra regione ha dato i natali, tra gli altri, ad artisti quali De Nittis, Toma, Netti, il cui valore è riconosciuto sia dagli studiosi che dalla critica, ai quali la curatrice ha sapientemente affiancato un altro artista, Giuseppe De Nigris, che nella nostra esposizione trova la sua prima sezione monografica.  Quarantotto opere di quattro artisti che hanno contribuito a far grande la pittura ottocentesca napoletana e italiana, quarantotto opere in un percorso espositivo, credo di poter affermare senza timore di essere smentita, coerente con la nostra attività di ricerca e di qualità», dichiara Claudia Branca.

La mostra, prodotta dal Must – Comune di Lecce e realizzata con il sostegno della BdM Banca – Gruppo Mediocredito Centrale e della Mediafarm srl, si avvale di prestiti notevoli e di un rapporto sinergico tra staff del Must e docenti e ricercatori delle Università Federico II di Napoli e Unisalento e altri rinomati studiosi. Sulla chiarezza d’intenti e l’orientamento necessario alla realizzazione di una mostra, continua l’architetto Branca: «Come ho avuto modo di scrivere nella breve nota introduttiva al catalogo della mostra, sono fermamente convinta che se in generale numerose sono le variabili da valutare nell’ideazione di una mostra ancor più l’analisi merita una particolare attenzione in un museo pubblico come il Must, nella consapevolezza di una responsabilità che non è solo amministrativa – si impiegano risorse pubbliche –  ma anche, e soprattutto oserei dire,  morale, di offrire al pubblico un prodotto qualitativamente di alto livello, al passo con le attuali tendenze ma, non di meno, coerente con le  politiche culturali che si è scelto di perseguire. Va da sé che se considero le mostre realizzate in questi ultimi quattro anni un po’ come dei figli di cui andar fieri, non dimentichiamo che per scelta consapevole non acquistiamo prodotti preconfezionati». Aggiunge poi un aspetto metodologico di fondamentale rilevanza: «Progettiamo e produciamo ogni mostra partendo dall’idea espositiva sino all’allestimento e al catalogo delle Edizioni Must passando, in affiancamento con i curatori di volta in volta coinvolti, per la fase progettuale vera e propria con la ricerca delle opere, i rapporti con i prestatori, eccetera. Credo che quest’ultimo sia un figlio di cui si possa essere orgogliosi. Ma, ovviamente, lascio a chi visiterà la mostra il giudizio, pronta ad accogliere suggerimenti e critiche e, spero, anche qualche nota di gradimento. Per il futuro vedremo: le idee sono tante e altrettanto ambiziose».

Il titolo della mostra è scritto nelle memorie di Gennaro della Monica (1836-1917), di origini abruzzesi, anche lui trasferito a Napoli. Scrive che, insieme con De Nittis, con Federico Rossano, con Marco De Gregorio e con gli altri artisti pittori della famosa scuola di Resina, alle falde del Vesuvio, «eravamo innamorati del vero, ci bastava vedere un bell’effetto di luce, una bella nuvola, un bel crepuscolo per essere felici. Non speranza o desiderio di onori, non di ricchezze; nostra sola speranza era quella di acchiappare il bello fugace del vero, e fissarlo sulla tela». Da qui l’idea di entrare in rapporto diretto con la natura: non secondo quanto diceva Palizzi, con un atteggiamento quasi scientifico del vero, bensì con un atteggiamento di totale interdipendenza. Dunque, la natura diventa per certi versi poesia, sentita intimamente.

E non solo il realismo di De Nittis, Toma, Netti e de Nigris declinato nelle sue chiavi interpretative di volta in volta dai vari artisti (realismo intimo, sociale, paesaggistico) fu la cifra che accomunò questi personaggi, tutti pugliesi. Fu anche l’ambiente della loro formazione e il clima che vi gravitava attorno ad essere profondamente incisivo nella vita personale e professionale dei maestri in mostra. Le loro origini formative si dispiegarono al Reale Istituto di Belle Arti di Napoli in un momento importantissimo; il momento della grande riforma dell’arte quando Filippo Palizzi, che veniva dall’Abruzzo, e Domenico Morelli, che era napoletano di nascita, avevano trasformato sia la pittura che la scultura in direzione del vero. È solo dopo l’Unità d’Italia che cambiò lo scenario del mondo artistico. Da quel momento, la pittura presenta un nuovo protagonista: il paesaggio che non è più a servizio di una storia da ambientare, ma diventa protagonista da rilevare ed indagare nei suoi tanti aspetti.

Quarantotto i dipinti in mostra che testimoniano le connessioni che i quattro artisti hanno saputo realizzare tra le loro radici pugliesi e la scuola napoletana ottocentesca, acquisendo allo stesso tempo la libertà della pittura parigina degli anni felici dell’Impressionismo, inserendosi così in un mercato ramificato e internazionale. Tra tutti, De Nittis è stato l’unico italiano presente alla mostra degli impressionisti della famosa mostra nell’atelier Nadar del 1874.

Altro elemento chiave a tenere insieme De Nittis, Toma, Netti, de Nigris fu la fede politica. Erano tutti pittori liberali che avevano combattuto in prima linea o dalle retrovie per l’Unità d’Italia. Ed è proprio questa esperienza che chiarifica l’iconografia e l’interpretazione di molti quadri esposti. Toma, che nel 1857 venne arrestato e nel 1859 era ancora un vigilato speciale della polizia borbonica; de Nigris, anche lui arrestato a Gaeta con addosso armi e materiale sovversivo; Netti, che dipinse i moti del 1848, precedenti come inno a quelli del 1861; e infine De Nittis, più giovane ma anche lui risentì del medesimo clima. Napoli divenne terreno comune ai quattro artisti. Poi, dopo questo momento formativo, ognuno prenderà la sua strada. Una strada che andrà in tante direzioni diverse ma, nessuno nemmeno il De Nittis francese, dimenticherà il contatto con il vero: non diventerà mai un pittore di maniera, come saranno altri impressionisti.

Ed è dalla presenza di questo noto artista che scaturisce un’osservazione: la constatazione di non assistere ad uno sbilanciamento espositivo – come saremmo indotti ad aspettarci, forse – data la presenza di De Nittis. La sua presenza, invece, non solo è bilanciata ma è propedeutica ad immergere l’osservatore in un periodo storico carico di suggestioni e tensioni che si sviluppano all’interno del percorso espositivo in maniera differente per mano dei quattro artisti. Scelta effettuata dalla curatrice Isabella Valente, docente di storia dell’arte contemporanea presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II, che ha chiarito come i percorsi proposti permettono di far emergere alcune novità, con la presentazione di opere inedite o poco note. Ognuno dei quattro artisti presenti apporta contributi a mezzo della sua personale poetica ed interpretazione del vero: chi, come Netti, ha un approccio più didascalico in cui non viene lasciato nulla al caso; chi, come Toma, affronta il tema del vero attraverso una lente cromatica che ci rivela non solo virtuosismi tecnico-pittorici ma una visione completamente intimista ed interiorizzata del vero. De Nittis che non dimenticherà mai il rapporto privilegiato con il vero e Giuseppe de Nigris, al quale viene dedicato per la prima volta uno spazio autonomo che consente di ricostruirne la produzione e la personalità.

A rinnovare l’attenzione su Gioacchino Toma, la cui ultima retrospettiva risale al biennio 1995-1996, con una mostra che toccò Spoleto, Napoli e la stessa Lecce, sono numerose opere esposte caratterizzate da grande qualità pittorica e una vena intimista che emerge dai temi e dal trattamento del colore. Pittore poco apprezzato nel passato, ricade invece tra le personalità più interessanti. «Toma avrebbe bisogno di ben altri studi, grandi approfondimenti. Toma è proprio uno dei più grandi artisti dell’Ottocento italiano, preannunciatore di molte cose e di molte tematiche che poi sono accadute nel pieno Novecento. Infatti, Toma non fu capito proprio per questo motivo al suo tempo e io auspico un giorno, prima di andare in pensione, di fare una monografica su Toma», dichiara Isabella Valente.

Negli anni dell’Impressionismo e di una conseguente esplosione di modernità e trionfo della luce, Toma arriva con i suoi grigi, con le sue riflessioni intime su brani di vita, anche modesta ma sempre permeata di grande verità. Nei Sommozzatori, affronta il mare non da un punto di vista descrittivo ma dal punto di vista dell’essenza stessa del mare. Modernità e intimismo dunque, le parole chiave per comprendere la poetica di Toma. Attualissimo il pensiero di Francesco Geraci su Gioacchino Toma, quando scriveva «(…) Esaminate attentamente le opere del Toma e vi convincerete subito che anche l’artista appartiene alla categoria delle vittime del destino, dei confinati della vita. Ma nel suo intimismo tragico e doloroso, pieno di miserie e di malinconie, di affanni e di desolazioni, c’è una forza che si rivela a tratti, una volontà che non muore, un orgoglio che non si uccide, una dignità che non piega neanche di fronte al martirio (Luigi Sanfelice), un misticismo che nessuna volontà umana riuscirà mai a soffocare (La messa in casa)».

Vicino a Toma era Giuseppe de Nigris. Mentre Toma, sospende quasi le sue atmosfere, de Nigris è un grande narratore con una forte propensione alla descrizione. I titoli dei suoi dipinti che sceglie da sé, sono altrettanto suggestivi, evocativi del significato stesso delle opere. Esempi sono L’Ultima risorsa, in cui l’ultima risorsa per una famiglia indigente è la vendita dei capelli di una madre per continuare a sostenere i propri figli o, nel caso più ironico di Un medico in erba, dove il paziente è un cagnolino e il medico è un bambino che lo sta visitando, mentre i suoi amici assistono alla visita.

Nelle opere di Francesco Netti, uno tra i maggiori esponenti della critica d’arte che fiorì a Napoli tra il 1865 e il 1868 insieme a Vittorio Imbriani, traspare uno dei suoi principi estrinsecato dall’estetica moderna ossia considerare l’opera artistica come «espressione del sentimento», ponendo una perfetta identità tra esecuzione ed espressione. La sua personalità eclettica prestò particolare attenzione al tema carnevalesco realizzando opere di eccelsa qualità. Basti pensare a Dopo la festa (1864) in cui rappresentò una drammatica narrazione di un ballo in maschera mostrando i differenti attimi della fine o della brusca interruzione della festa. Qui Netti si serve di una disposizione particolarmente teatrale, dividendo i personaggi in gruppi, ben distinti e caratterizzati da gesti chiari, precisi e plateali, volti ad incrementare maggiormente il tono già drammatico del momento.

Un esempio più tardo, che testimonia un altro filone di ricerca del Netti, è I mietitori (1893-1894). Ragione della fascinazione di questo dipinto è anche quella per cui restò incompiuto: l’artista morì senza completarlo e fu la sua ultima opera. Erano anni in cui Netti si dedicava al tema della Murgia e quindi alla Puglia, alla campagna pugliese, al lavoro dell’uomo ma, senza nessuna speculazione sociale – nonostante in quel momento tutti insistessero sul tema sociale con punte anche di forte polemica verso lo stato italiano. Lui invece no, guardava al tema con occhio verista – lo stesso sguardo che ancora oggi si staglia dai campi ocra in cui lavorano i suoi mietitori.

“Eravamo innamorati del vero”. De Nittis, Toma, Netti, de Nigris, artisti pugliesi tra Napoli e Parigi, è accompagnata da un catalogo, per le Edizioni Must Lecce, con testi di Isabella Valente, Massimo Guastella, Lucio Galante, Rosa Esmeralda Partucci e le schede delle opere esposte.

La mostra, inaugurata lo scorso 18 aprile, potrà essere visitata fino al 18 ottobre 2025 (dal martedì alla domenica, dalle ore 9 alle ore 21). Si tiene al Must – Museo Storico Città di Lecce, ex Convento di Santa Chiara, via degli Ammirati 11, a Lecce.

Sefora Cucci
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In alto: G. De Nittis, Sull’Ofanto, 1864-1867, Olio su tela, 50×58 cm. (ph. Amedeo Gioia)

 

G. De Nittis. Casale nei dintorni di Napoli, 1866, olio su tela, 44×26 cm (ph. Amedeo Gioia)

G. Toma, Un rigoroso esame del Sant’Uffizio, 1864, olio su tela, 98×131 cm (ph. Amedeo Gioia)

G. Toma, La messa in casa, 1877, olio su tela, 83×130 cm
(ph. Amedeo Gioia)

G. de Nigris, Un medico in erba, 1875, olio su tela, 52×67 cm
(ph. Amedeo Gioia)

F. Netti, Dopo la festa, 1864, olio su tela, 90×131 cm
(ph. Amedeo Gioia)

F. Netti, La Messe/I mietitori, 1893-1894, olio su tela, 183×281 cm
(ph. Sefora Cucci)