Lettura “laica” a cura di Antonio Scandone della lettera enciclica di Papa Francesco sulla fraternità e l’amicizia sociale
La prima impressione che si riporta nel leggere questa ultima “lettera enciclica” di Papa Francesco è la facilità dell’approccio, la scorrevolezza del linguaggio, lo sforzo compiuto dall’estensore per rendere agevole la comprensione a tutti i destinatari. Il testo, infatti, si sviluppa in 8 capitoli, ciascuno dei quali articolato in brevi paragrafi dell’ampiezza di una o due proposizioni, progressivamente numerati fino al 287mo. Essi, sotto l’apparenza di una escursione di pensiero diluita in annotazioni sommarie e frammentarie, in realtà costituiscono la trama compatta di un discorso organico e coerente, che attinge la sua valenza logica da un sostrato di valori filosofici e morali lungamente meditati e di portata universale. Del resto, come affermava Tullio De Mauro, per potersi esprimere con un linguaggio piano ed efficace è necessario prioritariamente avere le idee chiare nella propria mente.
Tale connotazione la si riscontra fin dalla prefazione lucida e penetrante di Luigino Bruni, che specifica come tutto il discorso di Francesco prenda le mosse dalla parabola del Buon Samaritano. Dalla cui analisi, minuziosa, filologica, conseguente e articolata, scaturisce la necessità di impostare il cammino della Chiesa “accanto ai poveri, agli abbandonati, ai malati, agli scartati, agli ultimi” (2). In effetti, la costante che si riscontra nel corso della lettura di questa “lettera enciclica” è proprio la scelta strategica di una ricollocazione di campo senza equivoci e senza compromessi, per rivendicare “l’inalienabile dignità di ogni persona umana al di là dell’origine, del colore o della religione” (39).
Da qui si sviluppa la ricca tessitura delle argomentazioni che, partendo dalla minuziosa analisi della Laudato sì, cioè dalla ormai inevitabile presa d’atto della piega che ha assunto il cammino dell’umanità, sempre più pericolosamente proiettata in un vortice consumistico di dimensioni planetarie e di interconnessioni globalizzate, con l’espansione esponenziale della popolazione mondiale, la progressiva riduzione delle risorse energetiche ed alimentari, l’inquinamento del suolo, del sottosuolo, delle acque e dell’atmosfera, il rischio concreto dell’implosione dell’intero pianeta, ecc., giunge alla inevitabile conclusione che è necessario porre un freno a questo folle volo, per scongiurare la catastrofe finale i cui primi segnali sono ormai sotto gli occhi di tutti.
Naturalmente tale analisi non poteva sottrarsi all’esame onesto e rigoroso delle cause determinanti, che in questo testo Papa Bergoglio non esita ad additare, senza mezzi termini, nello squilibrio dei rapporti economici, sempre più radicali, e nella conseguente polarizzazione della popolazione mondiale tra paesi ricchi e potenti, da un lato, e vaste aree di povertà, di arretratezza, di sfruttamento e di discriminazione, dall’altro.
Da qui una serie di affermazioni che colpiscono per la loro incisività, la loro spontaneità e la loro onestà intellettuale. Parole che finora, fino a questo Papa, non avevamo ancora ascoltato con tanta schiettezza dalla voce ufficiale della Chiesa. Qui si ritorna con i piedi per terra, si aprono gli occhi sulla realtà effettuale, e, soprattutto, si invita la gente, i fedeli, i popoli di ogni nazione, di ogni condizione, di ogni credenza e di ogni orientamento politico a prendere coscienza della gravità in cui l’intero pianeta si sta aggrovigliando.
I motivi di fondo di tale situazione? Papa Francesco dedica un intero paragrafo alla individuazione di tali cause, un paragrafo che già nel titolo, “Riproporre la funzione sociale della proprietà”, disvela la inequivocabile capacità di guardare in faccia, finalmente, le fattezze del Moloch che tutto fagocita. In esso, infatti, si afferma che “le differenze di colore, religione, capacità, luogo di origine, luogo di residenza e tante altre non si possono anteporre o utilizzare per giustificare i privilegi di alcuni a scapito dei diritti di tutti” (118). Da cui consegue, per necessità logica, che le capacità degli imprenditori “dovrebbero essere orientate chiaramente al progresso delle altre persone e al superamento della miseria”. Perché “sempre, insieme al diritto di proprietà privata, c’è il prioritario e precedente diritto della subordinazione di ogni proprietà privata alla destinazione universale dei beni della terra” (123).
Se è del tutto scontato che mai, di propria spontanea volontà, i fruitori di privilegi rinunceranno alle loro ricchezze per condividerle con gli emarginati del mondo, se d’altronde è altrettanto evidente che le varie teorie utopistiche o i diversi tentativi di appianamento delle disuguaglianze con strategie politiche o rivoluzionarie hanno marcato il loro fallimento storico, allora è del tutto naturale, proclama Francesco, che l’unica e l’ultima strada percorribile è quella della fratellanza, dell’aiuto reciproco, dell’amore per tutto il resto dell’umanità. Per cui ora è giunto il tempo in cui dobbiamo imparare a dare “alla nostra capacità di amare una dimensione universale, in grado di superare tutti i pregiudizi, tutte le barriere storiche o culturali, tutti gli interessi meschini” (83).
Nessuno è esonerato da questo compito supremo. Tutti dobbiamo finalmente renderci conto che, allo stato in cui siamo arrivati, o ci salviamo tutti insieme o non si salva nessuno. Finora ci siamo gingillati con l’illusione leibniziana che questo sia il migliore dei mondi possibili. Perfino la Chiesa, ammette Francesco con nobile onestà intellettuale, “ha avuto bisogno di tanto tempo per condannare con forza la schiavitù e le diverse forme di violenza” (86). Ma ora siamo arrivati al capolinea, per cui si impone il dovere di “pensare e agire in termini di comunità, di priorità della vita di tutti sull’appropriazione dei beni da parte di alcuni”. Ed anche il dovere di “lottare contro le cause strutturali della povertà, la disuguaglianza, la mancanza di lavoro, della terra e della casa, la negazione dei diritti sociali e lavorativi”. È giunto dunque il tempo di “far fronte agli effetti distruttori dell’Impero del denaro” (116).
La Chiesa cattolica però, insieme a tutte le altre confessioni religiose del mondo, anche se ancora dotata di profonde motivazioni etiche e di rilevanti cariche di generosità, non può da sola affrontare un tema di così vasta portata, non può da sola scardinare il male nefasto dell’egoismo, della sopraffazione, della violenza, delle guerre. Francesco ha ben presente che l’uomo del nostro tempo è ancora “quello della pietra e della fionda”. C’è bisogno, allora, della mobilitazione forte e agguerrita di altre entità morali e giuridiche in grado di proporsi come catalizzatori del cambiamento. Oggi, in un mondo così intrinsecamente interconnesso dalla pervasività della globalizzazione, “abbiamo bisogno che un ordinamento mondiale giuridico, politico ed economico incrementi e orienti la collaborazione internazionale verso lo sviluppo solidale di tutti i popoli” (138). È indispensabile dunque “lo sviluppo di istituzioni internazionali più forti ed efficacemente organizzate (…) dotate del potere di sanzionare”. Occorre, insomma, proclama Francesco citando espressamente la Caritas in veritate di Benedetto XVI, “qualche forma di autorità mondiale regolata dal diritto” (172). Detto in termini ancora più espliciti, “è necessaria una riforma sia dell’Organizzazione della Nazioni Unite che dell’architettura economica e finanziaria internazionale, affinché si possa dare reale concretezza al concetto di famiglia di Nazioni”.
La più grande apertura della Chiesa viene evidenziata da Papa Francesco nel passo in cui, di fronte all’imperversare di ogni genere di intemperanza fondamentalista, invita ciascuno di noi ad impegnarsi “a vivere e insegnare il valore del rispetto, l’amore capace di accogliere ogni differenza, la priorità della dignità di ogni essere umano rispetto a qualunque sua idea, sentimento, prassi e persino ai suoi peccati” (191).
E prosegue:
“Nessuno potrà possedere tutta la verità, né soddisfare la totalità dei propri desideri, perché questa pretesa porterebbe a voler distruggere l’altro negando i suoi diritti. La ricerca di una falsa tolleranza deve cedere il passo al realismo dialogante di chi crede di dover essere fedele ai propri principi, riconoscendo tuttavia che anche l’altro ha il diritto di provare a essere fedele ai suoi” (221).
Siamo al tema del relativismo. Quel relativismo, che tanto aveva turbato ed intricato il magistero di papa Ratzinger, in questa enciclica francescana si ridisegna e si circoscrive in termini di giustizia sociale: “Il relativismo non è la soluzione. Sotto il velo di una presunta tolleranza, finisce per favorire il fatto che i valori morali siano interpretati dai potenti secondo le convenienze del momento” (206). Con il che si opera una traslazione del concetto di relativismo dal piano delle ideologie e della fede a quello dell’economia, per legittimare con esso ogni sopraffazione ed ogni abuso da parte dei privilegiati.
L’apertura mentale di Papa Bergoglio arriva perfino a sfiorare la metodologia darwiniana della selezione naturale dei fenomeni. Essa, applicata nell’ambito sociale della costruzione del consenso e del primato della verità, viene larvatamente ripristinata e rivalutata: “Se una certa cosa rimane sempre conveniente per il buon funzionamento della società, non è forse perché dietro ad essa c’è una verità perenne, che l’intelligenza può cogliere? (…) Il fatto che certe norme siano indispensabili per la vita sociale stessa è un indizio esterno di come esse siano qualcosa di intrinsecamente buono” (212).
Per cui non abbiamo nessuna remora a riconoscere che questo di Francesco è un discorso decisamente innovativo, che proietta la Chiesa cattolica contemporanea in una dimensione di piena consentaneità con i grandi problemi del mondo e del futuro dell’umanità. In esso si sentono pulsare vivamente i problemi più scottanti non solo del destino del nostro pianeta e della sopravvivenza della vita, che già avevamo apprezzato ed ammirato e condiviso in Laudato sì, ma quelli dell’intera umanità, del dolore universale, delle ingiustizie sociali, della violenza di ogni genere e della sopraffazione su ogni debolezza. Con una evidenza, una chiarezza ed una autenticità che si potrebbero definire non solo innovative, ma di portata rivoluzionaria.
E tuttavia in questa lettera enciclica Francesco supporta ogni sua proposizione, ogni sua proiezione innovativa ed attualistica con il patrimonio evangelico, dottrinale e culturale dell’intera storia della Chiesa, innervando il suo pensiero direttamente su quello dei suoi più diretti predecessori. Ogni sua proposta, ogni sua indicazione di impegno di ordine pragmatico infatti, è presentata con il riscontro contestuale di analoghe affermazioni di Giovanni Paolo II, di Paolo VI, ed anche di Benedetto XVI, che pure a noi era apparso in una veste più assiomatica, più dottrinaria, più distaccata dalla molteplice variabilità delle concrete problematiche contemporanee. L’intera “lettera” è arricchita da testuali citazioni di passi e brani dei discorsi e dei testi ufficiali dei suoi recenti predecessori. Ma non tralascia, ovviamente, le testimonianze storiche e dottrinarie della Patristica, della Scolastica, dei brani evangelici che più direttamente prefigurano e giustificano le sue attuali affermazioni. Francesco non sta scoprendo niente. Ma nel mare magnum della sua secolare epopea, nella multiforme variabilità con la quale la Chiesa cattolica si è presentata al mondo nel corso della sua storia millenaria, comprese le tinte fosche e torbide della corruzione, delle intolleranze, delle persecuzioni, delle scomuniche, delle inquisizioni e delle torture, egli ha saputo trascegliere gli aspetti più luminosi, più esaltanti, più edificanti dell’insegnamento cristiano e della tradizione evangelica. Proponendoceli come l’essenza più autentica e più illuminante della missione pastorale.
Non tanto velatamente in questo documento si prende atto delle crescenti difficoltà che la fede incontra nel suo cammino di evangelizzazione, in funzione del diffuso scetticismo, della avanzante indifferenza, del dilagante “edonismo di massa”, che Pasolini, nella sua lucida coscienza laica, denunciava fin dagli inizi degli anni 70. La Chiesa si sente accerchiata sempre di più dal disinteresse, dall’egoismo, dall’individualismo, dal “deterioramento dell’etica”, dal “bisogno di consumare senza limiti”, da “un modello economico fondato sul profitto”, e in una parola dal materialismo. Già, proprio quel materialismo che credeva di aver debellato con la lotta senza quartiere contro le rivendicazioni sociali delle masse lavoratrici, contro il marxismo, contro il comunismo, e che invece le è arrivato inopinatamente proprio alle sue spalle, con la degenerazione del capitalismo, lo strapotere della finanza, il trionfo del liberalismo di mercato, la legge del più forte, lo scatenamento dell’individualismo. La serpe esopica, che per tanti secoli la Chiesa aveva così amorevolmente covato sul suo seno, alla fine si è risvegliata e l’ha morsa diretta sul cuore. Un poeta vernacolare leccese, Erminio Giulio Caputo, magnificando in una sua composizione le nostre torri costiere, e in particolare Torre Lapillo, edificate nel 500 per fronteggiare la minaccia ottomana, constatava amaramente: “Su rriati li Turchi, ma te terra”. Non dal mare, da dove li si aspettava, ma dall’entroterra, dalla selvaggia invasione urbanistica che ha sfigurato irreversibilmente il paesaggio originario delle nostre coste.
Francesco non è “di sinistra”, e tanto meno è ascrivibile alla caricaturale definizione di “comunista”, perché del tutto estraneo al concetto marxiano e socialista della “lotta di classe”. Anche se nella sua visione del mondo è chiaramente ravvisabile la sua limpida consapevolezza dell’esistenza delle classi, dei privilegiati, i ricchi, i benestanti, da una parte, e i lavoratori, o i disoccupati, i poveri e gli emarginati dall’altra. Fra questi Francesco annovera anche i “diversi”, senza altra specificazione o delimitazione, lasciando chiaramente trasparire l’apertura del suo abbraccio paterno anche nei confronti di quanti non si accostano ai sacramenti, o di quanti subiscono odiose discriminazioni di ordine sessuale. A tutti riserva il calore palpitante del suo amore. Con lui la Chiesa curiale, dopo secoli di sostanziale appoggio alle classi dominanti, talvolta in aperta connivenza con il fascismo (“l’uomo della Provvidenza”, il supporto a Francisco Franco, l’abbraccio a Pinochet, ecc.) ha preso piena consapevolezza delle ingiustizie, delle diseguaglianze e dei torti di questa nostra società. Del resto lo stesso Francesco, riprendendo la testimonianza degli Atti degli Apostoli secondo cui ai primordi paleocristiani la proprietà privata era suddivisa tra tutti i fedeli, ha affermato testualmente che proclamare la finalità sociale della proprietà “non è comunismo. È cristianesimo allo stato puro”.
A lettura ultimata permangono nel lettore laico le proprie convinzioni di fondo. Ma arricchite da una nuova certezza, che è data dalla convergenza non solo possibile, ma auspicabile, su moltissimi assunti filosofici, morali, politici, sociali ed economici che concernono la dimensione della nostra contemporaneità. La convergenza, cioè, su una visione del mondo, e del futuro dell’umanità, che è pienamente condivisibile, che sprona ad un impegno comune tra Chiesa e mondo laico, che si possono ritrovare accanto in un compito di responsabilità che prescinda dalle prospettive, strettamente personali, di un destino finale di trascendenza o di immanentismo.
È vero, anche Francesco si rende conto che tale prospettiva è “un sogno”, una utopia. E tuttavia, a prescindere dalla constatazione incontestabile che il progresso della storia si è potuto attuare anche in virtù delle suggestioni dei sognatori e delle audacie degli utopisti, non si è disvelato anch’esso come sogno, come utopia, il preteso socialismo “scientifico” di Marx? Poteva mai, lui stesso, immaginare che la sua scientificità dovesse andare a sfociare, nel termine di pochi decenni, nel socialismo reale di stampo staliniano?
Per cui ci acquietiamo appagati in quello che Francesco definisce, nella proposizione 74, come “il paradosso” per antonomasia, quello cioè secondo cui “a volte, coloro che dicono di non credere possono vivere la volontà di Dio meglio dei credenti”.
Antonio Scandone
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Immagine in alto: particolare della copertina di “Fratelli tutti, lettera enciclica sulla fraternità e l’amicizia sociale”, Papa Francesco – (guida alla lettura di Luigino Bruni, Paoline Editoriale Libri, ottobre 2020). In basso: copertina integrale