Arte contemporanea - 18 Dic 2021

Il paesaggio salentino negli acquerelli di Salvatore Petrelli: un racconto pittorico che continua

Recensione di Paolo Agostino Vetrugno dell’Antologica di pittura allestita dall’artista campiense dal 3 al 10 dicembre, nella sala “Don Pietro Serio”, a Campi Salentina


Spazio Aperto Salento

Ogni volta che mi si è data l’opportunità di presentare una mostra di un artista contemporaneo, mi è sempre balenato nella mente l’episodio di Salvador Dalì accaduto il 14 maggio 1954. Dalì era a Roma per l’inaugurazione di una sua mostra d’immagini sulla Divina Commedia e, da artista qual era, ha una stravagante idea: quattro uomini incappucciati portano in processione per le vie di Roma un grande cubo pitagorico sino a Palazzo Pallavicini. Deposto il cubo nella sala dove c’erano i giornalisti ad attenderlo, inaspettatamente il cubo si apre ed appare l’artista, il quale, tra lo stupore generale, inaugura la sua mostra con una presentazione in lingua latina.

Lo confesso solo ora: talvolta sono stato tentato di fare una presentazione parlando provocatoriamente in latino, naturalmente con finalità ben diverse da quelle di Dalì. E l’avrei fatto anche nell’occasione dell’Antologica di pittura di Salvatore Petrelli, svoltasi a Campi Salentina dal 3 al 10 dicembre scorso presso la sala “Don Pietro Serio” con il patrocinio del Comune, se non fosse subentrato il saggio pensiero dell’inutilità della mia azione ed il ricordo di quel bellissimo quadretto manzoniano di Don Abbondio che usa il latinorum per non comunicare, perché consapevole che il suo interlocutore non avrebbe capito nulla.

Oggi, più di qualche anno fa, nonostante la ricca evoluzione tecnologica, la nostra società ha seri problemi di comunicazione, perché sono saltati i tradizionali canali di contatto e forse anche perché i nuovi codici comunicativi non sono destinati alla collettività intera, ma soltanto ad una parte di essa, quando non a settori ben precisi che ne escludono altri, sino a generare il panico epistemologico. Se poi aggiungiamo che non sappiamo più nemmeno ascoltare, abbiamo un quadretto non molto rassicurante.

Eppure, sarebbe sufficiente leggere L’arte di ascoltare, il bellissimo trattato di Plutarco (I-II secolo), per capire quanto sia lontano il dialogo fondato, in primo luogo, sul rispetto dell’opinione diversa, che dovrebbe arricchirci anche se non la condividiamo, invece di indisporci e considerare l’altro come un nemico. Del resto, il dialogo (su cui peraltro si basa la democrazia, almeno quella grecamente intesa) presuppone almeno due interlocutori, dei quali uno parla e l’altro ascolta e viceversa, con una buona dose di educazione all’ascolto, che comporta anche una educazione al silenzio. Partendo da molto lontano, è una educazione che nel tempo ha coinvolto tanti dispositivi pedagogici, compresa la scuola intesa come agenzia educativa, e che la supponenza, assai diffusa nell’attuale società, guarda con un sorriso imbevuto di compassione.

Una mostra d’arte, soprattutto antologica come quella di Salvatore Petrelli, nasce principalmente per comunicare, per produrre sensazioni stimolanti e provocatorie, per sviluppare un tipo di comprensione che sviluppi una discussione. Anche in questo caso, la mostra diventa occasione di confronto e le opere esposte, dopo l’iniziale istintivo impatto visivo, diventano un dispositivo generatore di storie e di riflessioni nei visitatori.

Ma andiamo con ordine e brevemente analizziamo le sollecitazioni prodotte dalla personale di Petrelli.

I temi trattati nelle opere dell’artista campiense sono cercati e attinti nel vasto panorama della cosiddetta civiltà contadina; “cosiddetta” perché con il termine “civiltà” si suole racchiudere altri termini, quali quelli di società, mondo, condizione, vita, lavoro. Gli acquerelli riproducono, appunto, immagini di un mondo rimasto ai margini, anzi, suo malgrado, relegato ai confini della cultura ufficiale. Con la pazienza di chi con quella terra aveva instaurato un sodalizio, l’artista recupera e restituisce quelle immagini, ad una ad una, cercando il loro riscatto e, fotogramma dopo fotogramma, come un reporter ecologico raccoglie notizie per il suo giornale-diario, redigendone la cronaca. Infatti, gli acquerelli presentati alla sua rassegna, sono pezzi di storia privata, che per naturale conseguenza diventa anche collettiva.

Ulivo, 56 x 76, (2020)

Al pari di un archeologo della memoria riprende i frammenti e ricompone i reperti; senza cadere nella nostalgia, in quel ritorno doloroso che non può esistere in ciò che appartiene al presente. Del resto, è materialmente percepibile come sia in lui radicata la preoccupazione del modo in cui il presente – quello che viviamo giorno dopo giorno – possa diventare nel futuro. È in questa direzione che occorre leggere la scelta della narrazione degli alberi di ulivo che, nella dimensione visiva e formale, assume una centralità maggiore di qualsiasi altro discorso sull’argomento. E bene chiarire subito che non sono sicuramente i “fratelli olivi” di dannunziana memoria, né una conseguenza dell’input che presiede ad un attacco di un francescanesimo estetizzante, né sono gli ulivi deità casalinga del Salento di Vincenzo Ciardo, pianta sconcertante che domina da millenni la vita della regione salentina col suo fascino primordiale, e più ancora con la sua onnipresenza.

Quelli erano gli ulivi le cui foglie per secoli hanno danzato al canto dei venti (atmosferici e politici) che da sempre hanno segnato la colonna sonora della storia di questa terra. Il Salento senza gli ulivi è un’altra Terra o meglio: senza gli ulivi il Salento non esiste. Infatti, le nuove generazioni vedranno un paesaggio salentino diverso da quello descritto e dipinto da Ciardo e, nel nostro caso, anche da Petrelli. Scriveva, a proposito, Ciardo che l’olivo salentino è pianta antischematica per eccellenza e gli oliveti del Salento possono esibire un repertorio inesauribile di sagome paradossali, di strutture e complicazioni di linee bizzarre, quasi ad ammonire che in materia di invenzioni la natura la sa più lunga di noi.

Petrelli predilige un genere pittorico che storicamente s’innesta su un’importante produzione salentina che parte da lontano: dalle esperienze ottocentesche di Stanislao Sidoti e Paolo Emilio Stasi, il pittore archeologo, per poi proseguire con Enrico Giannelli, Michele Palumbo, Domenico Palma, Egidio La Noce sino a Giuseppe Casciaro e a Vincenzo Ciardo nel secolo scorso. Petrelli trascrive ciò che vede (o meglio ciò che ha visto e ricorda) con sfumata tenerezza e con musicale dolcezza, laddove i protagonisti sono il silenzio e la solitudine, in un’aria assorta e contemplativa, utilizzando l’inquadratura di un bambino che, gattonando, inizia a fare i primi passi.

E come un bambino scopre gioiosamente le forme più segrete del paesaggio (che poi sono sotto gli occhi di tutti) ricercando una favolosa infanzia della natura. Perciò, non vede distese di campi di grano o ampi terreni ricoperti di fiori campestri o vasti prati incolti: percepisce lunghe spighe di grano che si intrecciano affannosamente, fitte muraglie di vegetazione verde brillante, leggeri veli di foglie o grovigli di steli di erbe ferme davanti alle sue labbra e ai suoi occhi; inquadrature che lasciano scorgere nuvole sfilacciate dai venti o galleggianti nella luce diurna.

Per un attimo si ha la sensazione di sentire un profondo sospiro oppure la presenza di passi senza rumore; ma è soltanto una sensazione ingannevole, perché non c’è la presenza dell’uomo in tutte le sue opere presentate. Soltanto qualche manufatto opera dell’uomo, come può essere un muretto a secco o qualche trullo salentino: ma l’uomo non compare mai, perché quelle immagini sembrano avere come sottofondo musicale l’Amara terra mia, un brano della tradizione popolare abruzzese conosciuto per la rielaborazione di Domenico Modugno, una terra ormai spopolata, alla ricerca di un benessere che riscatti, almeno per una volta, il duro lavoro che era soltanto fatica grande ed estenuante. Del resto le chiesette rurali sparse per il territorio salentino, senza porte e spesso senza altari e senza tetto, non hanno nulla di diverso dalle pietre rimaste a testimoniare la presenza di un antico tempio greco.

Il voler mostrare alcune immagini vissute in prima persona da Petrelli ed il desiderio di condividerle rivelano quasi una indubbia genealogia religiosa, in quanto sembrano scaturite da un retroterra che è in mimesi con le esperienze e con i linguaggi del sacro; anzi, proprio la messa a fuoco di alcune particolari immagini sembrerebbe ricalcare una sorta di esibizione liturgica che appartiene alle forme di ostensione ai fedeli di reliquie o di oggetti sacri.

Perlustrando la sacralità della natura s’imbatte nei papaveri che sono i fiori del sonno e della morte, che crescono nei campi di grano; e da un contesto naturale passa ad un contesto simbolico eucaristico. Il papavero è anche un fiore considerato per le sue qualità soporifere sin dai tempi antichi. Questo, tuttavia, ci porterebbe molto lontano, sino a considerare altri aspetti, anche linguistici, in cui emergono suggestivi valori simbolici delle lettere dell’alfabeto, come per esempio la lettera «M», che ritroviamo in diversi contesti per indicare la donna-madre, sino alla «M» di Maria. La «M», seguendo una seducente ipotesi che aspetta di essere ben giustificata, sembrerebbe essere una lettera composta da due linee angolari speculari che, in antinomia, indicherebbero graficamente l’ambivalenza del ruolo della madre, la quale rischia la sua vita per dare la vita: affascinanti sono gli esempi di Orfeo e M-orfeo oppure di orior e M-orior.

Petrelli, nel costruire le sue inquadrature, si sdraia pancia in giù, quasi per riposare sui prati, e da quella angolazione ritrae iris, papaveri, erbe, ma è anche come un bambino che gioca vicino alle dune sulle spiagge del Salento.

Gli alberi di ulivo sono guardati per lo più dal basso in alto; ma ci sono anche altri alberi del paesaggio salentino come l’albero delle melagrane, una pianta che sarebbe nata dal sangue di Bacco, ucciso dai Titani e riportato in vita da Rea, madre di Giove: simbolo spesso di fertilità e di prosperità e attributo, perciò, anche di Venere, non certo come generica dea dell’Amore, ma come la divinità che, alma Venus lucrezianamente intesa, garantisce sulla terra la prosecuzione della vita, animale e vegetale. Nell’ambito dell’iconografia cristiana i chicchi rappresentano allegoricamente la Chiesa, capace di unire in una sola fede popoli e culture, ma è anche simbolo eucaristico, come documenta il bel rosone della leccese chiesa di S. Croce.

Petrelli utilizza l’acquerello, una collaudata tecnica pittorica che permette di eseguire un’opera mediante colori diluiti in acqua, talvolta con l’aggiunta, come agglutinante, di gomma arabica. Il supporto solitamente è di carta, quello che usa Petrelli; ma è utilizzata anche la stoffa, come la seta per lo più da artisti orientali. L’acquerello è, in ogni caso, una tecnica che richiede una grande prontezza e maestria di esecuzione a causa del rapido essiccarsi dei colori. E la bravura di Petrelli è sotto gli occhi di tutti.

Nella Storia dell’arte è soprattutto diffuso, in ambito inglese, nella metà del Settecento per riprodurre appunto paesaggi e vedute. A ben riflettere, se dobbiamo far ricorso alla storia, già Cennino Cennini alla fine del sec. XIV usa il termine «acquerello» ne Il libro dell’arte o Trattato della pittura, per indicare la realizzazione dell’ombreggiatura negli schizzi o nei disegni: «Se vuoi, poiché hai collo stile disegnato, chiarire meglio il disegno, ferma con inchiostro ne’ luoghi stremi e necessari. E pòi a(o)nbrare le pieghe d’aquerelle d’enchiostro; cioè acqua quanto un ghuscio di nocie tenessi dentro, due ghoccie d’inchiostro; ed aonbrare con pennello fatt(o) di chode di varo mozetto e squasi senpre asciutto. E così, secondo gli schuri, chosì anneriscie l’aquerella di più ghocciole d’inchiostro» (cap. X).

Con queste finalità sarà una tecnica pittorica che si farà strada e si affermerà nel corso dell’Ottocento, basti pensare al corregionale Giuseppe De Nittis (1845-1884). È, comunque, in particolare tra gli architetti che l’acquerello si diffonde maggiormente per rendere più comprensibile un progetto di un edificio, dando una sorta d’illusione del rilievo, della distanza e dei diversi piani degli oggetti. Si tratta sempre di colori diluiti in acqua, perciò la variazione di toni o di gradazioni del colore è affidata all’acqua.

I colori hanno avuto sempre una somma attenzione da parte dei teorici e degli scrittori d’arte, tra questi mi sembra importante quanto notato nel 1635 dal Card. Federico Borromeo: i colori «son quasi parole che, percepite cogli occhi, penetrano nell’animo non meno delle voci percepite dalle orecchie». Perciò, la tavolozza di Petrelli non è il prodotto della solita interpretazione degli aspetti della natura, che pure ci starebbe, ma è un diario intimo che nell’attimo in cui si concretizza non è più segreto, sebbene intriso di profonda familiarità.

Alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, Jacques Benveniste proponeva, per la prima volta, il concetto della memoria dell’acqua, applicandola in particolare ai prodotti omeopatici. Il medico francese partiva dalla considerazione che l’acqua avrebbe la presupposta proprietà di mantenere un «ricordo» delle sostanze con cui entra in contatto. Tralasciando la querelle se esista o meno, a livello scientifico, una prova certa del presunto fenomeno, rimane affascinante l’intuizione. Del resto, basterebbe fare un semplice esperimento: man mano che aggiungiamo dell’acqua in un bicchiere di vino, il vino disperde nell’acqua il grado alcolico e, alla fine, non sarà né vino né acqua, ma una terza bevanda. Così avviene per gli acquerelli: più un colore è diluito nell’acqua più il colore assume sfumature trasparenti, labili, evanescenti.

Se il concetto di memoria dell’acqua, comunque, apparirà ai più un concetto pseudoscientifico e privo di fondamento, ogni ricordo umano, se non alimentato e custodito, tenderà nel tempo ad essere sopraffatto dall’oblio, come l’acqua disperde la fragranza e la bontà del vino schietto. Perciò, nei paesaggi di Petrelli è possibile individuare il sotteso desiderio personale del pittore di una manutenzione del paesaggio, che alla fine è quella manutenzione del «paesaggio dell’anima» di cui parla Vincenzo Ciardo, presupposto per una riappropriazione della propria identità. Per realizzare ciò, tuttavia, è necessario che ci sia la convinzione della naturale diversità, come quella dei fili d’erba dipinti da Petrelli, uno diverso dall’altro, o come la differenza delle foglie degli ulivi, che sono tutte simili ma non uguali, come i giorni della vita di ogni essere vivente, come i chicchi di una melagrana che spesso è l’attributo iconografico della Concordia, il simbolo dello scambio delle idee, giacché, pur essendo differenti uno dall’altro, indicano che, al pari delle idee, rimangono fermi a rinsaldare l’unione e l’amicizia tra gli interlocutori, quello di cui tutti noi oggi abbiamo più bisogno, forse più che mai, per costruire un mondo meno artificiale e più umano.

Paolo Agostino Vetrugno
© Riproduzione riservata

 

Foto in alto: Petrelli, Papaveri, 35 x 53 (2021)

 

Paolo Agostino Vetrugno e Salvatore Petrelli

Un momento della presentazione dell’Antologica (3 dicembre 2021)

Immagine inaugurazione mostra (3 dicembre 2021)