Anche nel Salento crescono gli accantonamenti su conti correnti e libretti di deposito
Tanti sono i pregi che nel mondo contraddistinguono noi italiani ma, tra questi, ve n’è uno che oggi può rappresentare un’importante leva per la ripresa economica del Paese: la propensione al risparmio.
Secondo gli ultimi dati rilevati da Banca d’Italia, nel corso del 2020 i salentini hanno incrementato la quota di risparmi accumulati sui conti correnti, libretti di risparmio, conti di deposito a breve scadenza con una crescita del 9,6% rispetto all’anno precedente. Nello specifico, è cresciuta dell’8,2% la quota accantonata sui conti corrente, del 4,8% quella sui depositi con durata prestabilita fino a 2 anni e del 2,2% quella sui depositi rimborsabili con preavviso mentre decresce del 2,8% il risparmio depositato su depositi con durata prestabilita oltre i 2 anni. Il saldo, quindi, supera ormai i 13 miliardi di euro e fa della nostra provincia la più parsimoniosa tra quelle pugliesi.
La tendenza dei salentini, del resto, è in linea con il trend nazionale. Come emerge dall’ultimo rapporto redatto da ABI, infatti, anche i depositi bancari degli italiani hanno segnato un nuovo record raggiungendo la cifra monstre di 1774 miliardi di euro, superando lo stesso PIL italiano.
Complici, da una parte, le misure restrittive dovute all’epidemia da Covid-19 che ci hanno costretto a casa nel 2020 riducendo i consumi e, dall’altra, l’influenza delle aspettative negative sul futuro, nel solo 2020 gli italiani hanno risparmiato ben 128 miliardi di euro. Un incremento di risparmio a cui, però, non fa da contraltare un aumento di ricchezza.
Si tratta, infatti, di un’enorme massa di liquidità non soltanto improduttiva ma esposta, anzi, alla lenta e inesorabile azione erosiva dell’inflazione, il principale nemico dei risparmi rimasto quasi silente nel corso degli ultimi anni, ma che adesso torna a fare capolino.
Ad agosto scorso, l’inflazione ha segnato un +3% nel Vecchio Continente e +2,1% in Italia su base annua. Quanto questa tendenza sarà duratura non lo si può stabilire perché permangono i trend strutturali deflazionistici – demografia, innovazione tecnologica – ma il perdurare di politiche monetarie accomodanti, le politiche fiscali espansive che continueranno a sostenere la domanda, le tensioni internazionali e i problemi legati alla logistica che incidono sui costi sono fattori che potrebbero sostenerla ed impattare sui risparmiatori.
Ipotizzando, ad esempio, uno scenario in cui, per i prossimi 10 anni, l’inflazione si attesti intorno al 2% (obiettivo BCE), 50.000 euro lasciati giacere sul conto corrente potrebbero arrivare a valere circa 40.000 euro. Su scala nazionale, con i depositi che sfiorano ormai i 2000 miliardi di euro, significa bruciare ogni anno quasi 40 miliardi di euro di valore che neghiamo ai nostri figli, al presente e al futuro del Paese.
Ma per gli italiani, poco istruiti finanziariamente e spesso mal consigliati, al rischio di guadagnare qualcosa è preferibile la certezza di perdere qualcosa. Eppure la storia sta lì a dimostrare con i numeri che si tratta di una strategia sbagliata.
Negli ultimi 20 anni, l’MSCI World, l’indice azionario che rappresenta l’economia mondiale, nonostante tutto ciò che è successo – epidemie, guerre, disastri finanziari – è cresciuto del 600%, mentre l’inflazione ha eroso il potere di acquisto del capitale del 34%. Questo significa che mentre chi ha deciso di investire 100 euro con fiducia sull’economia del mondo oggi se ne ritrova 700 euro, chi ha scelto il conto corrente “perché non si sa mai” si ritrova più povero di 34 euro.
L’esperienza lavorativa che quotidianamente mi porta ad incontrare decine di risparmiatori mi induce ad immaginare che per molti lettori il ragionamento potrebbe apparire semplicistico, quanto eccessivamente ottimistico. Del resto, se è vero che i rendimenti passati non sono indicativi di quelli futuri, è altrettanto vero che non sono frutto di coincidenze, come dimostrano le serie storiche.
In ogni caso, se il riferimento alla storia recente può non essere convincente, proviamo a guardare la realtà contemporanea.
Dopo che l’epidemia da Covid-19 ha causato il crollo di tutte le economie nel corso del 2020, tre fattori giocano oggi a nostro favore e ci consentono di guardare con realistico ottimismo al futuro: vaccini, politiche monetarie accomodanti e politiche fiscali espansive.
I primi sono stati la notizia più incoraggiante per i mercati finanziari e per il sentiment di tutti gli operatori economici, dai produttori ai consumatori. È grazie ai vaccini, infatti, che abbiamo potuto progressivamente riacquisire la nostra libertà, tornare sui luoghi di lavoro e della vita sociale riducendo gli effetti negativi della crisi sanitaria sull’economia.
Sul fronte delle politiche monetarie tutte le banche centrali al mondo proseguono nell’adozione di manovre espansive. Fino alla fine del 2021, oltre il 25% del PIL USA e il 25% di quello UE saranno immessi sul mercato rispettivamente da FED e BCE. Una massa monetaria immensa, pari a circa 8,6 trilioni di dollari. Guardando i tassi di interesse, nel meeting di luglio il FOMC della FED e il board della BCE hanno ribadito che l’intervallo di riferimento resta compreso tra lo 0% e lo 0,25% mentre quello sui depositi presso la BCE resta fermo al -0,50%. Secondo le previsioni delle due banche centrali, i tassi potrebbero restare su questi livelli almeno fino alla fine del 2022 e solo nel 2023 potrebbero registrarsi i primi due aumenti.
Ma è sull’ultimo dei tre fattori sopra citati – le politiche fiscali accomodanti – che vorrei soffermarmi perché rappresentano la vera novità introdotta dai Governi nel corso di questi ultimi anni.
Negli USA, l’American Rescue Act, noto come piano Biden, prevede investimenti per 1200 miliardi di dollari e il Congresso sta discutendo una manovra complessiva da 3500 miliardi; in Europa, il piano Next Generation EU, approvato a luglio 2020, prevede 750 miliardi di euro da immettere nel sistema nei prossimi anni. All’Italia, come noto, spettano 210 miliardi di euro.
Tralasciando i dettagli, si tratta di cifre che andranno investite da qui al 2026 e che sfiorano il 10% del PIL, il triplo delle risorse immesse nel 2008 dopo il disastro finanziario dovuto al fallimento di Lehaman Brothers. La più grande espansione fiscale dal dopoguerra ad oggi.
Già oggi, del resto, le principali economie del mondo hanno recuperato le perdite registrate nel 2020 e sono uscite dalla recessione.
La pur comprensibile reticenza ad investire per fattori emotivi che limitano la propensione al rischio, quindi, non può non trovare un alleato in una valutazione razionale dello scenario economico attuale.
Ritornando all’esempio precedente, ipotizzando che il risparmio fermo sui conti correnti perda solo l’1% di potere d’acquisto per effetto dell’inflazione significa disporre di circa 20 miliardi di euro di effetto ricchezza in più all’anno. Di conseguenza, se mettessimo in circolo le ricchezze accantonate a tasso zero e capitalizzassimo questo beneficio per i prossimi dieci anni otterremmo un beneficio fatto di investimenti, consumi, fiducia in grado di rimettere in moto il Paese e di tradursi in una cifra che farebbe impallidire il totale ammontare del programma PNRR.
Perché questa provocazione diventi anche solo in parte realtà, è necessario cominciare a gestire il nostro risparmio in maniera più efficiente, moderna e domandarsi “perché sto risparmiando?”. Così facendo, scopriremmo di avere degli obiettivi di vita che devono tradursi in obiettivi di investimento, molti dei quali con orizzonti temporali lunghi che, se ben sfruttati con i consigli di un esperto, consentirebbero di raccogliere frutti per il futuro nostro e del nostro Paese.
Emanuele Fina
Personal Financial Adviser FinecoBank
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