Arte contemporanea - 24 Apr 2024

La mostra “Aracne. Filo per filo, punto per punto, segno per segno”: un itinerario narrativo rivolto alla conoscenza della Fiber Art

La nuova mostra allestita al Must di Lecce, con opere di trenta artisti nazionali ed internazionali, è stata inaugurata lo scorso 22 marzo. Potrà essere visitata fino al 22 ottobre 2024


Spazio Aperto Salento

Una rete di velluto rosso intrecciato precede l’ingresso al percorso espositivo della nuova mostra al Must di Lecce, Aracne: filo per filo, punto per punto, segno per segno, inaugurata lo scorso 22 marzo e fruibile fino al 22 ottobre 2024. Una rete, quella dell’artista Elizabeth Aro, che ben si presta ad esser metafora dell’intrecciarsi di storie, di connessioni, di legami che caratterizzano gli artisti e le opere presenti in mostra.

Sono trenta i protagonisti dell’iniziativa: Vincenzo Agnetti, Arman, Elizabeth Aro, Paola Besana, Alighiero Boetti, Christian Boltanski, Renata Bonfanti, César, Fortunato Depero, Arthur Duff, Tracey Emin, Sylvie Fleury, Sandro Greco, Yayoi Kusama, Maria Lai, Sveva Lanza, Nicola Liberatore, Corrado Lorenzo, Claudia Losi, Franca Maranò, Eva Marisaldi, Hermann Nitsch, Jorge+Lucy Orta, Salvatore Scarpitta, Gino Severini, Chiharu Shiota, Shoplifter (Hrafnhildur Arnardóttir), Sissi, Cesare Tacchi, Joana Vasconcelos.

L’esposizione, corredata da un ponderoso catalogo curato da Massimo Guastella e Lia De Venere, si colloca nella sfera dell’arte del cucito e del ricamo, soprattutto dell’uso di materiali tessili, cosiddetti morbidi, evidenziando una continuità e una coerenza tematica con le precedenti mostre realizzate dal Must, in particolare Ricamata Pittura. Marianna Elmo e l’arte dei fili incollati nell’Italia Meridionale del Settecento, del 2021, e Angelo Filomeno. Works. New millenium del 2023.  Ha come obiettivo principale quello di far conoscere al grande pubblico un aspetto dell’arte contemporanea in continua evoluzione, quello della Fiber Art, filo conduttore tra tutti gli artisti nazionali e internazionali presenti in mostra, con particolare attenzione anche al territorio tramite le opere di Sandro Greco, Corrado Lorenzo, Franca Maranò e Nicola Liberatore. Difatti la mostra, come indicato nel catalogo da Massimo Guastella, si propone di tracciare un «itinerario narrativo rivolto alla conoscenza della Fiber Art», anche grazie alle schede tecniche realizzate per ogni artista ed opera esposta.

Secondo Claudia Branca, direttrice del Must e ideatrice della mostra, l’interesse delle opere presenti «trascende la semplice fattura». In un’epoca segnata da lacerazioni politiche, geografiche, climatiche e sociali emerge la necessità di ricucire e «quest’arte fatta di nodi e di intrecci si contrappone agli strappi della società contemporanea attraverso una ricucitura naturale, autentica».

L’evidente evocazione del mito di Aracne, la tessitrice della mitologia greca che aveva osato sfidare Atena e per questo venne trasformata in ragno, è un richiamo a una dimensione passata, quella dell’arte del cucito e della tessitura che da sempre ha accompagnato l’uomo, un ponte che collega l’arte tessile contemporanea alle sue radici storiche, oltre ad indicare la vanità umana che «condanna a tessere all’infinito una ragnatela che è perfezione e nello stesso tempo eterna prigione», sottolinea Claudia Branca nel catalogo della mostra. Il filo, il punto e il segno rappresentano ciò che l’uomo è capace di creare, il recupero di una manualità perduta o, per usare le parole dell’artista Franca Maranò, «il recupero del lavoro con l’ago», quel lavoro dettagliato, laborioso e meticoloso della tessitura.

La Fiber Art, nota anche come arte tessile o arte morbida, si riferisce all’impiego di fibre o tessuti come principale medium artistico e l’utilizzo di tecniche tessili, nelle loro declinazioni materiche o nelle loro rappresentazioni concettuali. Emerge, analizzando le opere esposte, l’intento di fornire una panoramica esaustiva sulla fenomenologia mediale e sulle metodologie operative di tale corrente artistica. D’altronde, tutto ciò che è flessibile può essere tessuto ed è per questo che il campo dei media utilizzati nella Fiber Art è vastissimo: fili e filati, corde, tessuti ed ogni tipo di fibra naturale (come cotone, seta, lana) o sintetica (ad esempio nylon o poliestere), ma anche materiali organici come capelli umani, crini di cavallo, rami, foglie. Molte sono anche le tecniche utilizzate: tessitura, intrecci, ricami, quilting, patchwork, uncinetto spesso senza l’ausilio di adesivi o saldature ma attraverso nodi, intrecci e cuciture.

Pur essendo sempre esistita una cultura tessile – soprattutto nel territorio salentino, basti pensare agli antichi telai in legno, al lavoro dei maestri panari o a quello dei pescatori con le loro reti – la Fiber Art ha avuto bisogno di tempo per consolidarsi e per affermarsi nel panorama artistico sino alla creazione di un proprio linguaggio autonomo, complice il forte radicamento del medium alla tecnica. Ha gradualmente abbandonato i suoi legami con l’artigianato tessile tradizionale, emancipandosi dalla dimensione domestica e superando le limitazioni convenzionali del genere, quindi dall’essere attività principalmente femminile, guadagnando dignità, grazie anche ad una continua sperimentazione stilistica e formale.

Basandosi sull’extramedialità della ricerca artistica, che implica l’uso diversificato sia delle fibre tessili che di altri materiali insoliti (ad esempio vetro, carta, rame e plastica) oltre ad un’ampia varietà di tecniche artistiche (dalla simulazione delle tecniche classiche come il disegno e la pittura, sostituendo l’ago e la macchina da cucire alla matita e ai pennelli, alla combinazione di artigianato e processi digitali, fino all’integrazione con la fotografia, la performance e i video), la Fiber Art aspira a ottenere un riconoscimento tra le principali forme d’arte visiva contemporanea, svincolandosi dalla dimensione artigianale, comune alle arti applicate (come avviene nel contesto della scuola del Bauhaus in cui si predispone il laboratorio di tessitura, con l’intento di integrare il mondo dell’arte a quello dell’artigianato), e definendo un proprio linguaggio artistico autonomo.

Nel XX secolo, in Italia, è il Futurismo a dare una spinta decisiva all’arte tessile grazie a Giacomo Balla, Enrico Prampolini, Fortunato Depero, artisti coinvolti nella moda, nel teatro e nella produzione di arazzi e tappeti, realizzati prendendo a modello loro opere (sono esposti in mostra due multipli tratti da opere pittoriche originali dei futuristi Depero e Severini; in questo modo l’esposizione dimostra di considerare anche riferimenti storici germinali del movimento artistico vero e proprio), evidenziando un forte interesse per la diversificazione dei materiali artistici.

L’attenzione per le pratiche tessili, che aveva caratterizzato le avanguardie di primo Novecento, si consolida nella seconda metà del secolo, non solo grazie al contributo del movimento femminista. Sono soprattutto gli anni Sessanta e Settanta ad essere decisivi per la Fiber Art, sia negli Usa nell’ambito della Process Art o Antiform, sia in Europa, grazie ad esposizioni come la Biennale Internationale de la Tapisserie di Losanna del 1962.

Durante l’inaugurazione della mostra, Lia De Venere ha affermato che «se non fossero esistite le donne questa mostra non ci sarebbe stata». Difatti la Fiber Art è dominio principalmente femminile: l’arte del cucito, del ricamo è da sempre l’arte femminile per eccellenza perché richiede pazienza, precisione, manualità tutte qualità che son sempre state associate alla donna. Ma, nella maggior parte dei casi, per le fiber artists il recupero dell’ago viene visto come riscatto dell’esser donna e si legherà inevitabilmente alle istanze femministe degli anni Settanta. In tal senso in Italia è fondamentale il contributo delle artiste della generazione degli anni Dieci-Trenta, come la già citata Franca Maranò, Maria Lai, Renata Bonfanti, Paola Besana e Sveva Lanza, tutte presenti in mostra, le cui produzioni artistiche spingono a riflettere sull’emancipazione e sui diritti, sull’identità femminile.

La mostra ospita una delle opere più significative di Franca Maranò, Abito Mentale (1975-1982) appartenente alla serie di opere nota come Abiti Mentali, presentata nel 1977 presso la Galleria Centrosei. «Sono abiti realizzati con tela medievale, panno rosso e filo di cotone nero, da indossare o da utilizzare in performance», osserva Lia De Venere nel catalogo della mostra. Le opere si presentano, utilizzando le parole dell’artista, volutamente in una «situazione di immediata percettibilità» e sono «spoglie ed accessibili […] per le volute caratteristiche di indossabilità e di capacità a coprire, a vestire e quindi ad inserirsi in una normale dimensione di vita vissuta».

È un invito a prendere coscienza della propria condizione, a riappropriarsi della propria identità. Gli Abiti Mentali sono caratterizzati da un doppio strato di tela, da cui si sono ricavate delle aperture laterali per le braccia, pensati appunto per essere indossati allo stesso modo di un saio. In entrambe le opere presenti in mostra, gli abiti si aprono, i lembi ricavati dalla tela vengono sollevati e appuntati, e svelano frammenti di figure: delle gambe nude femminili da una parte, un anonimo volto di donna, nell’atto di sistemarsi un fiore rosso tra i capelli, dall’altra. Il filo di cotone nero è ben evidente e risalta sulla tela grezza. I grossi punti cuciti rimandano al «recupero dell’ago» come un atto rivoluzionario, un atto di autoconoscenza e di riscatto dell’essere donna. Difatti la Maranò aggiunge «mi sono così riportata ad una attività di ieri per intendere la tensione di oggi, nel tentativo di avvicinare aspetti distanti tra loro». I punti, le pieghe sono «mezzo di interpretazione dell’ansia del tempo moderno».

In mostra è presente anche Maria Lai, considerata una delle pioniere della Fiber Art in Italia, della quale si fa menzione nel catalogo più volte, in particolare in riferimento alla sua famosa performance Legarsi alla montagna, durante la quale ha coinvolto la popolazione di Ulassai, suo paese di origine, unendo con un nastro celeste di tela jeans lungo ventisette metri, tutte le case del paese per poi legarle a loro volta alla montagna sovrastante. Il recupero dell’arte del tessere da parte di Maria Lai è strettamente legato a un profondo rapporto con la propria terra d’origine e ricorda le tradizioni antiche legate al lavoro femminile. L’opera esposta è Ciò che non so (1984), prodotta in anni di forti sperimentazioni da parte dell’artista che, a partire dagli anni Sessanta, si dedica a nuove ricerche utilizzando materiali poveri (ad esempio il legno e la stoffa). L’opera si presenta come un libro costituito da pagine di tessuto, e il filo diviene l’inchiostro. Le pagine sono volutamente illeggibili e caratterizzate da un groviglio di fili che formano segni simili a parole, «evocando il perpetuarsi dell’emarginazione femminile e le fatiche che il desiderio di conoscenza comporta», scrive Lia De Venere, ed è proprio attraverso le sue opere che l’artista «riesce ad emanciparsi come donna e come artista».

Le esperienze delle artiste italiane non possono essere separate dalle dinamiche dell’arte femminista. È sempre esistito in arte un movimento femminista che da un lato si è concentrato sui contenuti più politici, sostenendo la causa della liberazione delle donne, dall’altro lato, ha recuperato e conferito nuova dignità a pratiche artigianali, come il tessere e il cucire, arti millenarie tradizionalmente associate al genere femminile. La decisione di abbracciare la Fiber Art implica il recupero di materiali tessili e delle tecniche tradizionali quali strumenti di espressione e affermazione individuale. Questo desiderio di riappropriazione trasforma l’atto artistico in un’azione militante, una forma di protesta contro gli stereotipi di genere. In questo contesto, nel catalogo, si ricordano date fondamentali come il 1977 anno in cui venne pubblicato l’articolo Waste Not Want Not: An Inquiry into What Women Saved and Assembled – FEMMAGE, firmato dalle artiste americane Melissa Meyer e Miriam Shapiro, le prime a coniare il termine di femmage, intendendo tutte quelle attività praticate dalle donne attraverso le tecniche femminili tradizionali quali il ricamo, il cucito. O ancora, si ricordano importanti artiste femministe americane come Judy Chicago, icona dell’arte femminista, e la sua famosissima opera The Dinner Party (1974-1979), un’installazione composta da 39 posti apparecchiati, disposti lungo una tavola triangolare, dove ogni posto rappresenta una figura storica femminile, una narrazione simbolica delle donne nella civiltà occidentale, che per molto tempo sono state trascurate dalla storia stessa.

Tra le opere di vari artisti di chiara notorietà presenti in mostra emerge anche Alighiero Boetti. Negli anni Settanta si interessa al mondo mediorientale, in particolare l’Afghanistan. Affascinato dalla pratica della tessitura e del ricamo, avvia a Kabul un progetto artistico coinvolgendo ricamatrici afghane per realizzare opere come Mappe, planisferi colorati, una sorta di registro dei mutamenti politici del mondo. Alla base della sua produzione sono «l’ordine e il disordine, il caso e la necessità, il cercare e il trovare, il simile e il diverso». Del 1988 è la serie dei Grandi arazzi di cui fa parte l’opera esposta in mostra Sans titre, “Ricamo lettere”, caratterizzati da grandi ricami colorati di lettere e simboli.

La mostra dedica ampio spazio ad artisti di livello internazionale, tra cui spicca Chiharu Shiota, che da sempre si dedica all’esplorazione dei grandi temi dell’umanità come la vita, la morte e le relazioni. Nelle sue imponenti installazioni, utilizza reti di fili di lana neri, rossi e più recentemente bianchi che si impadroniscono dello spazio, incorporando oggetti di ogni tipo come scarpe, chiavi o lettere. Anche nell’opera esposta in mostra, di dimensioni contenute, State of Being (Note) del 2022, una rete di filo nero, all’interno di una struttura in metallo, ingloba dei fogli scritti. Gli oggetti privati della loro funzione originaria, assumono significati simbolici.

Un’altra artista giapponese è Yayoi Kusama, la cui vita testimonia il potere curativo dell’arte: sin da giovane ha utilizzando le sue allucinazioni e ossessioni personali come motore creativo, alimentando una fervida creatività, testimoniata da una prolifica produzione artistica. Un risultato non così scontato, considerando le sfide legate alle sue origini nella tradizionale cultura giapponese femminile e al suo successo nella scena artistica newyorkese dominata dagli uomini. Del 1988 è l’opera esposta in mostra, Memory, una scatola foderata da tessuti di diverso colore, chiusa da una rete, contenente sferette di stoffa a righe multicolori.

Una vita altrettanto tumultuosa è quella dell’artista Tracey Emin. Esponente del gruppo Young British Artist, artista poliedrica nonché fortemente provocatoria (famosa la sua opera My bed un’installazione in cui pone al centro di una stanza un letto sfatto, cosparso di biancheria sporca, bottiglie di vodka e altri oggetti personali), è nota per le sue opere autobiografiche e confessionali, in cui mette a nudo speranze, desideri, umiliazioni, fallimenti. Produce lavori con una grande varietà di media tra cui disegno, pittura, scultura, fotografia, spesso avvalendosi anche di materiali tessili. Chess set (2008), opera che è possibile vedere in mostra, è un’installazione caratterizzata da un set di scacchi da viaggio, con pedine in bronzo appoggiate su una scacchiera in tessuto composta da quadrati di stoffa cuciti tra loro sui quali si intravedono delle immagini erotiche. L’artista utilizza lo storico gioco degli scacchi come metafora del corteggiamento amoroso.

Nell’esposizione, tra gli artisti più riconosciuti a livello internazionale, compare Christian Boltanski. Dopo una prima breve fase, alla fine degli anni Cinquanta, in cui si dedica alla pittura figurativa, estende la sua pratica artistica alla scultura, all’installazione, alla fotografia e all’arte concettuale. Le sue opere, particolarmente suggestive, esplorano tematiche quali il tempo, l’oblio e la memoria, l’identità, la morte e la storia. L’opera senza titolo, esposta in mostra, è caratterizzata da abiti di vario genere e colore compressi in una teca dotata di un meccanismo a motore. Sono piccoli pezzi di vite altrui, di cui l’artista si appropria, creando una nuova narrazione che ruota attorno alla memoria affettiva, poiché il suo scopo principale è quello di «tenere traccia di ogni momento della nostra vita, di tutti gli oggetti che ci sono stati intorno».

Spicca, tra le altre, la figura di Hermann Nitsch, esponente del Wiener Aktionismus, movimento nato alla metà degli anni Sessanta ritenuto la più cruenta espressione della Body Art europea. Obiettivo della sua ricerca artistica è la liberazione del corpo e dello spirito dalle imposizioni della società borghese e da ogni forma di tabù religioso, moralistico e sessuale. Nitsch elabora un’esperienza di arte totale, in cui si fondono pittura, teatro, musica e performance, coinvolgendo tutti e cinque i sensi, attraverso rituali ancestrali. Camicia Rossa (2007), in mostra, è un esempio dei suoi relitti, termine con cui l’artista definisce «ciò che resta di qualcosa che è irrimediabilmente perduto», una testimonianza della performance. L’oggetto tessile, imbrattato di pigmento rosso, è applicato sulla tela in una posizione di croce, veniva indossato dall’artista durante l’azione pittorica, caratterizzata dallo sgocciolamento di colori dai toni accesi.

Accanto all’opera di Nitsch, sulle due pareti laterali, risalta l’opera Body Architecture, Study murale degli artisti Lucy e Jorge Orta proposta in mostra in due varianti, nella tonalità del rosa e nella tonalità del blu. Nel 1992 i coniugi danno vita allo Studio di ricerca Orta a Parigi, dedicandosi a progetti artistici che affrontano tematiche sociali e ambientali come la sostenibilità, la migrazione e il sociale. Creano la serie Refuge Wear, rifugi temporanei che possono trasformarsi in indumenti e fornire habitat autonomi, progettati per situazioni di emergenza. Le opere esposte derivano dall’installazione Antartic Village – No Borders, realizzata nel 2007 in un villaggio effimero tra i ghiacci dell’Antartide, costituita da un gruppo di tende, strutture abitabili portatili che si trasformano in indumenti e su cui sono applicati guanti e camicie, simboli dell’interconnessione umana, dei legami emotivi e sociali che si creano tra gli individui.

Nell’esposizione Massimo Guastella ha voluto ritagliare un posto di rilievo anche a due artisti salentini, Sandro Greco e Corrado Lorenzo. Nel 1968 i due si trovano a collaborare e insieme fondano il Centro di Ricerche Estetiche di Novoli. Entrambi dimostrano una forte sensibilità verso le tematiche ambientali, evidenziando uno stretto dialogo con l’ambiente e un profondo rispetto per la natura. Greco e Lorenzo adottano operazioni estetiche imparentate alla Land Art, all’arte concettuale e all’Arte Povera operando direttamente sul paesaggio naturale ed urbano: come i Fiori di carta su roccia, sabbia, asfalto di Greco o gli interventi pittorici su pietre e cave di Lorenzo, attraverso l’utilizzo di materiali naturali come foglie e terre.

Corrado Lorenzo approda all’arte tessile negli anni Settanta attraverso i suoi Tessuti, di cui fa parte proprio l’opera proposta in mostra, Tessuto 1972 realizzato con telaio artigianale. Le scelte cromatiche e geometriche non sono casuali ma studiate e le bande di tessuto si alternano creando un ritmo costante. Successivamente le opere diventavano protagoniste di interventi di Land Art: stese sulle rocce, interagivano con il paesaggio circostante, creando una contaminazione tra arte e natura.

Sandro Greco, invece, esplora il mondo dell’arte tessile più tardi, negli anni Ottanta, dedicandosi a forme artigianali come manufatti tessili, lavori in cartapesta e ceramica. Da questa esperienza nascono i Tapp-arazzi, opere realizzate a mano, utilizzando la tecnica di annodamento dei tappeti, oppure fili di lana o di seta incollati su tela e il punto Smirne. Ne è un esempio, Il sole innamorato della luna (1987), l’opera proposta al Must, un tappeto-arazzo dai colori vivaci che ben testimonia quello spirito gioioso e quello stile ludico, caratteristico di Greco.

È dagli anni Duemila che l’arte morbida si afferma definitivamente, evidenziando il suo crescente apprezzamento e il suo riconoscimento nel panorama artistico. In un’epoca in cui trascorriamo la maggior parte del tempo a guardare i nostri schermi, questa forma d’arte tattile si rivela seducente e affascinante sia per gli artisti che per gli spettatori. Per Vittorio Sgarbi «fare arte col filo vuol dire, innanzitutto, meditare sul senso più intrinseco delle cose, a partire dalla loro radice etimologica. Se è vero che ogni opera, come ci insegnano le scienze del linguaggio, è un testo, qualcosa, cioè, di organizzato nel proposito primario di comunicare, è vero che ogni testo è, etimologicamente parlando, una tessitura, ovvero una composizione di elementi che si intrecciano fra di essi, determinando in tal modo una struttura». Ciò potrebbe suggerire, estendendo il significato di tale affermazione, che tutto ciò che ci circonda è caratterizzato da una trama, da un intreccio. Lo stesso tessuto è strettamente legato al corpo umano, diventandone quasi un’estensione: lo indossiamo, ci avvolge sin dalla nascita e ci accompagna sino alla morte.

Laura Montesano
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Foto in alto: Elizabeth Aro, Red net, 2009-2017, velluto rosso, installazione ambientale, dimensioni variabili

 

Corrado Lorenzo, Tessuto 1972, 1972, tessuto (part.)

Hermann Nitsch, Camicia Rossa, 2007, tessuto e tecnica mista su tela

Yayoi Kusama, Memory, 1988, tessuto, imbottitura

F. Maranò, Abito Mentale, 1975-1982, tela medievale, filo cotone nero, matita, fili da ricamo, tela trattata con gesso e colore, panno rosso (part.)