Un ricordo di Massimo Guastella dello scultore e pittore stattese scomparso recentemente
Dal 2013 ci eravamo persi di vista. Non fu possibile dare seguito a una tesi di laurea sulla sua opera: era irraggiungibile per la laureanda che provava a contattarlo. Lo smartphone perennemente “irraggiungibile”; a casa non rispondeva. Era, credo, l’inizio del suo disinteresse per l’attività artistica – come mi ha confermato Antonio Basile suo fraterno amico – che pure lo aveva visto impegnato per decenni con opere ed esposizioni che avevano certo seguito della critica.
La produzione di Sante Polito (Dampremy 1947 – Statte 2021), condotta nell’ambito delle indagini concettuali, con attenzioni alla natura e alla terra, aveva individuato nella polisemia delle pietre , definite “erratiche”, l’argomento chiave delle sue ricerche. I nostri primi contatti di lavoro li avviamo il 23 maggio 1993 quando lo invitai a partecipare ad “A.A.A. Azione artistica ambientalista. Disperdere l’arte nell’ambiente”, organizzata da Legambiente per le “Spiagge pulite” sull’arenile di Punta Penna Grossa, nella Marina di Carovigno. Denunciando quanto «la natura è minacciata dagli scempi dell’inquinamento», Sante Polito propose una «”cascata” cromatica», come la definì Antonella Marino, di colore blu.
Altra occasione di collaborazione artistico-critica l’avemmo nell’agosto 1999, per “Verso…dove” nella rassegna “Artetraseconda”, sul lungomare Regina Margherita di Brindisi. Polito propose un Frammento: due reperti geo-archeologici, già impiegati per una macina, per così dire preindustriali, sovrapposti l’uno sull’altro si osservavano alla sommità di un alto sostegno in ferro arrugginito, a ricollegare, dalla funzione originaria alla dimensione estetica, il passato al presente.
Simile l’orientamento estetico del Frammento (1999), che fu accolto e fruito, tra il dicembre 2012 e sino al giugno del 2016 nel Map, lo spazio espositivo ordinato nella chiesa di San Michele delle Scuole pie a Brindisi. Ancora una volta si trattava di una testimonianza litica, lavorata grossolanamente in una imprecisabile epoca, forse uno scarto, densa di tracce naturali, una sorta di capitello che richiamava un’arcaica mediterraneità; ancora una volta una colonnina votiva, di metallo corroso, ossidato, sospesa tra sacralità (che ben si ambientava nel luogo nel tempio cristiano) e natura; ancora una volta tornavano le modalità espressive dell‘artista, dall’objet trouvé all’objet artistique, che evocano, come osservavo: «l’età della pietra e quella del ferro, diacroniche esperienze dell’uomo, sincronici elementi di sintesi poetica».
Era nato a Dampremy, in Wallonia, nel 1947; Sante era figlio di migranti, suo padre lavorava nelle miniere di carbone in Belgio; tornato in Puglia, viveva a Statte, ebbe l’insegnamento nelle scuole del tarantino e operava come artista nel territorio.
Le sue esposizioni, nelle gallerie pugliese più versate nelle tendenze di ricerca del momento, dalla galleria Extra di Taranto, diretta da Piero Bruno, dove nel 1988 presentò i “Frammenti” riproposti nel 1991 a Omphalos di Terlizzi, a Neos di Santeramo, erano occasione per mostrare le sue pietre, dove persisteva integra, scriveva Lia De Venere, «anche la traccia intensa dell’azione della natura, lasciata dalla carezza del vento o dall’impronta di una conchiglia fossile, dalle macchie dei licheni o dallo strofinio delle acque».
Attento, mai banale nella selezione e accorpamento dei materiali, alla ricerca di un intrinseco equilibrio tra espressione formale e significato, Polito era coerente con i suoi orientamenti linguistici, affini al filone dadaista e all’assemblaggio di tipo concettuale. Erigeva le sue sculture, caratterizzate dall’essenzialità delle forme – ma che invero implicavano una rigorosa indagine strutturale degli elementi compositivi – come se fossero elementi primari di una natura arcaica.
Rileggendo il testo critico del ’91 di Maria Vinella, io credo, ricaviamo il senso profondo delle ricerche di Sante Polito, quando appropriatamente notava: «Eppure elemento essenziale dell’opera è il tempo o meglio lo spazio (umano) vissuto dal tempo, e la materia non è altro che il corpo che registra tale scorrere incessante tra archeologia, antropologia e geologia, tra mito, storia e tradizione», e in ciò consisteva la trama della sua produzione, ossia rendere «la matericità – continuava Vinella – atemporale, quasi reliquie di un passato arcaico fatto di antiche simbologie naturalistiche e iconografiche della classicità mediterranea».
Polito era restio alle mode e alle tendenze del momento, il suo ambito atemporale rendeva le sue sculture reperti trasportati nei tempi. E il mercato non era una sua priorità, ammaliato dalla ricerca pura.
Uscire silenziosamente dalla scena artistica negli ultimi anni deve essere stata una scelta consapevole, in una stagione dove l’arte, commercializzata e spettacolarizzata sempre più supina all’industria culturale, non sentiva più sua e neppure propria della creatività.
Massimo Guastella
© Riproduzione riservata
Foto in alto: “Arte – natura”, installazione ambientale, 1993, “A.A.A. Azione artistica ambientalista. Disperdere l’arte nell’ambiente”, Punta Penna Grossa, nella Marina di Carovigno
“Frammento” 1999 , pietra e ferro, Verso … dove? “Artetraseconda” , Brindisi lungomare Regina Margherita
“Frammento”, 1999, pietra, ferro, già Map, Brindisi, chiesa di San Michele Arcangelo delle Scuole Pie
“Frammento”, 1999, dettaglio, già Map, Brindisi, chiesa di San Michele Arcangelo delle Scuole Pie
“Artenatura”, 2012 ca, pietra , ferro, collezione privata.