Salento - 03 Lug 2021

Pizzica e tarantismo tra rito, mito e folclore

Da San Vito a San Paolo, passando per San Giovanni: i quindici giorni in cui il morso del ragno era in agguato


Spazio Aperto Salento

Quando si parla di pizzica non è necessario spiegare a cosa si stia facendo riferimento: già da metà degli anni ’90 con le sagre nelle piazze dei paesi del Salento e poi sempre di più dopo il 1998, anno in cui fu organizzato il primo Festival della Notte della Taranta e il suo ripetersi annuale, la sua fama si è sempre più amplificata. La pizzica è oramai, conosciuta e ballata in tutta Italia e non solo.

In realtà la diffusione così ampia, di massa, che si è verificata negli ultimi anni, ha fatto sì che le parole pizzica e taranta vengano usate in modo intercambiabile ma, seppure di origini comuni, la pizzica e la taranta, avevano peculiarità che ne stabilivano un uso in contesti nettamente diversi.

La pizzica aveva un carattere di tipo sociale e ludico, veniva suonata e ballata nelle feste, nei matrimoni, in tutte quelle occasioni in cui lo scopo era la convivialità e il divertimento, mentre la taranta aveva un uso specificamente terapeutico ed esorcistico: utilizzata in presenza di un soggetto tarantato, si suonava seguendo un rito cerimoniale ben definito.

Le ipotesi sulle origini sono molto antiche e si possono fare risalire alla nascita stessa dell’uomo e a quei filoni che si servono della musica come terapia. Volendo circoscrivere un’area di provenienza, una teoria ne attribuisce la genesi a quelle matrici egizie e mesopotamiche che hanno dato vita alle dottrine greche dell’Orfismo e del Dionisismo, le quali con il passare dei secoli, hanno proiettato la loro influenza in tutto il bacino del Mediterraneo e in tutta l’Europa continentale. Un’altra teoria, sulla base di simbolismi simili riscontrati negli scavi archeologici dell’epoca messapica, del sito di Roca (Lecce), attribuisce alla pizzica, un’origine autoctona, ma data la provenienza dei Messapi, dall’Illiria, anche in questo caso, la matrice è comunque di tipo greco. Vi è poi l’ipotesi che questa danza sia legata al culto della dea Atena e che sia frutto di una dinamica sociale costruita a uso e consumo delle donne.

La taranta è più specificamente legata al fenomeno del tarantismo, ossia alla sindrome attribuita al morso di un ragno, per lo più identificato come la Lycosa tarentula, le cui manifestazioni potevano essere diverse e non tutte necessariamente compresenti: sudorazione, palpitazioni, dolori addominali, inappetenza, frenesia, stanchezza, catatonia, stati depressivi.

Due sono i santi a cui è legato il culto salvifico dal morso del ragno velenoso: San Vito e San Paolo. La nascita della devozione di San Vito viene fatta risalire a Diocleziano, il cui figlio posseduto da uno spirito immondo, ebbe la guarigione grazie all’intervento del santo. San Vito, originariamente invocato come esorcistica, divenne, nel corso dei secoli, uno dei santi a cui ci si rivolgeva per ottenere la liberazione e la protezione dalle più disparate forme di agitazioni fisica e “danze” vessatorie, come ad esempio l’epilessia. Movenze corporali frenetiche, danze coreutiche e bacchiche venivano ricondotte a forme di possessione diabolica e il soggetto coinvolto era considerato vittima di una vessazione, di un’azione indotta da un agente esterno, un “demone” che lo costringeva a soccombere all’impulso di agitazione, al tremore.

Dall’osservazione dei movimenti di questi soggetti vessati pare nascere una similitudine con la mimica frenetica dei ballerini di Dioniso e delle baccanti, stabilendo una relazione tra danza e diavolo, tra dimensione coreutica e dionisiaca, alimentando la polemica cristiana nei confronti delle manifestazioni coreutiche pagane. La mimica dei posseduti, come quella dei danzatori e delle danzatrici di Bacco, comprendeva ruggiti e versi di animali, tremiti e agitazione del corpo, il sollevarsi con braccia distese, capelli irti e corpi sconvolti, rotazione all’indietro del capo con dorso ripiegato.

A partire dall’epoca medioevale, questo tipo di danza inizia a essere identificata come malattia, ma anche come la terapia stessa necessaria alla guarigione e la religione interviene sul rito pagano, mescolandovisi: la celebrazione eucaristica e la benedizione dei danzatori, si affianca alla danza sfrenata, coreutica che poteva durare anche più giorni. Nella seconda metà del ‘300, Cristoforo degli Onesti, insegnante di medicina a Padova, nel Sertum papale de venenis, testo considerato come il più antico che abbia trattato il tarantismo come sindrome da avvelenamento a seguito di un morso, scriveva “coloro che sono morsi dalla tarantula traggano massimo diletto da questa o quella musica”, di fatto dando legittimità all’esorcismo musicale degli avvelenati dalla taranta.

Tra il XVI e il XVII sec. il culto di San Vito, si avvicina a quello di San Giovanni, che si celebra a 24 giugno, pochi giorni dopo quello di San Vito, il 15 giugno, ma il santo che nel Salento è invocato come guaritore dal morso velenoso è San Paolo; un santo guerriero, proveniente da una famiglia di tessitori di tende, afflitto anche lui da una malattia, che alcune fonti hanno ipotizzato fosse epilessia. Un santo che ben rappresenta la trasposizione della dea Minerva, dea della guerra “giusta” e inventrice del telaio, una dea quindi, in grado di combattere e uccidere il ragno velenoso e distruggere la ragnatela in cui il soggetto era rimasto intrappolato.

Il Concilio di Trento rappresentò un momento fondamentale del cristianesimo, in cui la Chiesa cattolica cercò di porre degli argini alle forme di religiosità pagana ancora dilaganti all’interno dei rituali cristiani. La Chiesa, infatti, rendendosi conto di non poter imporre la cancellazione di questi riti, cercò di sostituire i numi pagani con divinità cattoliche e per non creare un grosso distacco tra divinità pagane e divinità cristiane, ne effettuò la sostituzione tenendo conto e mettendo in evidenza, quegli aspetti maggiormente presenti nell’immaginario della gente: è proprio nell’ambito di questa operazione, che si inserisce la sovrapposizione di San Paolo alla dea Minerva.

Un altro elemento simbolico da non sottovalutare è il periodo in cui maggiormente si verificano gli episodi di tarantismo: la seconda metà del mese di giugno. Le celebrazioni di San Paolo, che avviene il 29 giugno, come quella di San Vito (15 giugno) e quella di San Giovanni (24 giugno), si inquadrano con il momento del solstizio d’estate e del raccolto del grano, un periodo denso di significati legati al ciclo della natura, della vita e della morte e in cui il paganesimo celebrava la morte e la rinascita.

Come la celebrazione del santo avviene con cadenza annuale, allo stesso modo le persone colpite dal morso velenoso, tarantate, con cadenza annuale, nel periodo che andava dalla metà di giugno fino alla fine di agosto, potevano vedere il ripetersi delle manifestazioni del ragno e dover ricorrere alla terapia musicale.

Nel corso dell’800 la visione rituale e mitica del tarantismo va progressivamente frantumandosi; mentre da un lato, la visione positivistica della scienza tende a ricondurre il tarantismo a malattia, spesso curata con elettroshock, dall’altro la Chiesa lo associa sempre di più alla presenza di una colpa nei confronti del santo, che punisce il tarantato, obbligandolo a chiedere la grazia della guarigione dal morso venefico. Questa visione dualistica, quella medica e quella sacra, hanno convissuto fino a tempi recenti spesso sovrapponendosi sullo stesso soggetto, il quale veniva sottoposto ad entrambi i trattamenti: quello sanitario e quello esorcistico.

Il rituale esorcistico del tarantismo era abbastanza complesso, articolato secondo una chiara struttura. Seppure in ogni luogo dove si siano verificati fenomeni di tarantismo, abbia sviluppato delle caratteristiche specifiche rispetto agli altri, nei fattori centrali, erano in tutto simili: un agente esterno che possiede, una società che si fa carico della cura dell’ammalato, la musica come strumento riequilibratore e di ricomposizione sociale. Il tarantismo prevede un rito di possessione che per innescarsi ha bisogno di un agente esterno che dia inizio al rito, e della “complicità” della società nel quale esso si inserisce.

Il soggetto tarantato era spesso un soggetto fragile, sottoposto a forti stress per ragioni economiche, politiche, culturali o legate alla sfera della sessualità, il quale giunto al limite massimo della sopportazione, manifestava i sintomi del tarantismo e creando uno strappo, una interruzione della quotidianità, entrava in uno stato “altro”. Questa interruzione della quotidianità consentiva alla famiglia e alla società di ammettere il malessere e, riconducendolo nelle file della malattia causata dal morso di un ragno, consentiva l’adozione del rito taumaturgico praticato attraverso la musica e la danza. Al termine di tale rito, il tarantato, riacquisito uno stato di equilibrio psico-fisico, era in grado di essere reintegrato all’interno del tessuto sociale, di esserne riabilitato ai suoi occhi e quanto accaduto, veniva di fatto “normalizzato” evitando la possibile etichettatura del disordine mentale.

Riconosciuta la malattia, la famiglia chiedeva l’intervento dei suonatori/terapeuti, che dietro il pagamento di un compenso, eseguivano il rito di guarigione. La terapia, che poteva durare anche più giorni, prevedeva l’utilizzo di più strumenti che in genere erano il violino, la chitarra, l’organetto e il tamburello, ognuno dei quali interveniva secondo un ordine preciso. La prima fase della terapia prevedeva una esplorazione musicale tesa a comprendere se il tarantato avrebbe reagito positivamente a quel tipo di terapia, nel qual caso seguiva una progressiva crescita del ritmo della musica, la danza diveniva sempre più vorticosa, il tarantato assumeva ed emulava le movenze del ragno che lo aveva pizzicato e una parte della danza, in un processo di identificazione tra il soggetto e l’animale, si svolgeva addirittura a terra. Ogni tarantato aveva una risposta diversa alla terapia musicale, vi erano quelli che necessitavano un ritmo più lento altri più incalzante e ritmato vi erano addirittura le “tarante sorde” le quali rispondendo negativamente all’accompagnamento musicale, si autoproducevano la trance con melodie che cantavano esse stesse.

La casistica dei tarantati vedeva una forte predominanza femminile che fino agli anni ’50, si poteva considerare numericamente significativa, ma il forte flusso migratorio e il contatto con altre culture, ha portato a una “contaminazione” dei valori, della visione della vita, dei bisogni e delle necessità, una apertura mentale, un miglioramento della situazione femminile, che ha progressivamente determinato una diminuzione dei casi, fino a farli scomparire.

L’operazione culturale di riscoperta delle tradizioni musicali e delle danze salentine, avviata negli anni ’90, si inserisce in uno scenario, individuabile in tutte le parti del mondo, sviluppatosi come contraltare alla riduzione delle limitazioni imposte dalle frontiere, alla maggiore facilità di scambi culturali tra popolazioni e al rischio di “appiattimento”, di “livellamento” e perdita dell’identità di un popolo. Nel Salento si è tornati a fare musiche nelle strade e nelle piazze, ricreando di fatto, situazioni simili a quanto accadeva nelle tradizionali feste dell’aia: convivialità, allegria, cibo, musica, danza. Le feste estive dei vari paesi, hanno vissuto una nuova stagione di vitalità, alle quali si sono aggiunte un fiorire di sagre animate da gruppi folcloristici, nati sulla scorta di questo spirito di riscoperta della storia locale e di riappropriazione delle proprie radici. Non solo pizziche e tarante, ma anche serenate, canti d’amore, ninne nanne, canti per bambini e “canti alla strina”: un vasto repertorio musicale che rischiava di andare definitivamente perso, è stato recuperato e riportato alla conoscenza dei salentini e del mondo.

Un ulteriore passo evolutivo è rappresentato dal Festival della Notte della Taranta, dove la taranta, da terapia catartica, invischiata tra rito magico e rito religioso, viene svincolata da questi aspetti, mantenendone solo quelli della gestualità, della musicalità e della capacità di generare uno stato di trance, comune ad altri generi musicali come la macumba e il blues. Sul palco della Notte della Taranta si avvicendano musicisti di differenti aree geografiche e diversa matrice musicale, i quali, invitati a dare la loro personale interpretazione di brani storici, compiono un’operazione di ricerca in cui la musica tradizionale salentina viene messa in relazione con la musica del mondo, e applicando la metrica musicale individuata, permette il coinvolgimento e l’adesione alla trance da parte del pubblico, dei ballerini, dei nuovi tarantati, non più morsi da ragni venefici ma ancora bisognosi della catarsi ipnotica.

Luisa Mogavero
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In foto: la “Taranta” riprodotta nelle luminarie salentine (ditta Mariano Light), Scorrano, festa in onore di Santa Domenica, 6 luglio 2016 (foto Salvatore Marcucci)