Campi Squinzano Trepuzzi - 21 Mar 2021

Sant’Elia, un complesso monumentale da valorizzare e tutelare

Interviene Marco Presta, uno dei volontari impegnati in attività di ricerca per la ricostruzione delle vicende storiche dell’antico convento “dal fascino misterioso”


Spazio Aperto Salento

Nominando il convento di Sant’Elia, situato tra Squinzano, Trepuzzi e Campi, chiunque sia nato nelle zone limitrofe ricorderà con un sorriso i giochi d’infanzia e le spensierate giornate passate in questo luogo dal fascino misterioso che ha spesso rapito la fantasia di tutte quelle generazioni legate dal sottile filo dell’avventura.

Un luogo dalla storia incerta, dalle notizie ingannevoli e da fonti quasi inesistenti, come se volesse essere lasciato lì, “come una cosa posata in un angolo e dimenticata” diceva Ungaretti. Ma il bello della storia, e quindi dell’archeologia, è che grazie ad una piccola iscrizione o un piccolo frammento di ceramica, ciò che si riteneva ormai perso e dimenticato può riportare alla luce una storia da tempo dimenticata. Così è successo con il convento di Sant’Elia che ad oggi risulta ormai abbandonato a se stesso nella forma ma non nell’animo, perché un gruppo di volontari, grazie alla collaborazione del “gruppo speleologico “Ndronico di Lecce”, del Gal, di un gruppo di archeologi, ma soprattutto dei tre comuni di Trepuzzi, Campi e Squinzano, stanno cercando di far luce sulla sua storia, collaborando insieme per un progetto proteso alla sua meritata valorizzazione.

Tutti sanno che il convento fu fondato nel 1575, ma la storia della sua fondazione non è così “famosa” come questa data. Uno dei percorsi chiave per chiedere l’elemosina e diffondere la parola di Dio, era quello che portava da Rugge a Mesagne e Brundisium, centri nevralgici per la cultura e l’incontro con altre civiltà. Essendo il tragitto assai lungo, i tre comuni di Campi, Trepuzzi e Squinzano, con l’appoggio del Vescovo Annibale Saraceno, proposero la costruzione di un nuovo Convento in territorio Terenzano, per agevolare il cammino e accogliere i frati.

Nella “Relazione dello stato de’ conventi de’ fr. Min. Cappuccini della Provincia d’Otranto” del 1650, si legge che il Convento di Sant’Elia “fu edificato ad istanza delle terre di Campie e di Squinzano, le quali ambedue, con le loro elemosine, lo fabricorno et eressero secondo la povera forma cappuccina”.

In un altro importante documento che si trova presso l’Archivio Capitolare di Campi Salentina, redatto intorno al 1585 (non è datato ma si presume che il periodo sia quello) dall’Università del luogo e intitolato “Ragioni de la Magnifica Università de Campie intorno del loco de’ patri cappuccini…”, si dice che l’arciprete don Cesare Romano, già prima della fondazione del suddetto convento, usava ospitare i cappuccini viandanti in una casa ospizio di sua proprietà. Così, appoggiato dal Barone di Campie Loisi Paladini, “supplicò” i frati di fissare una dimora permanente nel luogo più idoneo al loro tenore di vita. Si scelse allora, di comune accordo con il vicario provinciale dell’Ordine, fra Ludovico da Giovinazzo, il feudo di “Trenzano” (CAMPI, arch. cap. ivi f. 428r. Il feudo di “Trenzano”, nonostante si estendesse fin sotto l’abitato di Squinzano, da tempi immemorabili faceva parte del contado di Trepuzzi).

Il Barone di Campi, dunque, acquistò dal barone di Trepuzzi Filippo De Matteis il terreno dove si doveva edificare il Convento, con il contributo dell’Università di Campi che stanziò una somma di denaro per la sua costruzione; in questo modo, Filippo rimaneva comunque il padrone del Feudo, senza però avere nessun dominio all’interno del convento. Per la costruzione, l’apporto economico dei frati fu molto limitato, tanto che, a contribuire in maniera proficua, furono gli abitanti delle terre limitrofe con le loro offerte. Così, nel 1575, il convento fu fondato col consenso dell’ordinario diocesano monsignor Annibale Saracino.

Nel 1758 venne ampliato grazie all’intervento del nuovo Vescovo di Lecce Alfonso Sozi Carafa, innamoratosi del posto per il suo silenzio, adatto alla meditazione e alla preghiera. Egli chiese ed ottenne dai superiori dell’ordine, di costruire a sue spese, un “casino” sul lamione (nord-ovest) come residenza occasionale, ma con alcune condizioni: il “casino” doveva servire solo per la villeggiatura del Vescovo e dei suoi successori, assistiti dai soli domestici con l’esclusione però di ogni altro secolare; in assenza o morte del Vescovo pro tempore i commissari o gli amministratori apostolici non potevano godere di alcun diritto di residenza (questo per evitare di far perdere alla comunità religiosa, la quiete e il silenzio della preghiera).

Dopo la morte del Vescovo Sozi Carafa, avvenuta nel 1783, la sede episcopale di Lecce rimase vacante per nove lunghi anni, così come la residenza episcopale di Sant’Elia, abbandonata ed esposta alle intemperie subì notevoli danni strutturali. Nel 1792 la mensa episcopale, con la venuta del nuovo Vescovo Salvatore Spinelli, decise di intervenire per risanare tutto il fabbricato e, affinché non venisse però nuovamente abbandonato, l’anno dopo si pervenne ad una nuova convenzione tra il Vescovo e la comunità religiosa, convenendo che il “casino” fosse consegnato alla comunità dei frati, la quale era obbligata ad abitarlo e custodirlo senza però apportare alcuna modifica. Il Vescovo naturalmente poteva andare ad abitarlo in qualsiasi momento, soprattutto durante le visite nei paesi limitrofi.

L’Ordinanza napoleonica del 7 agosto 1809 cui fecero seguito le leggi repressive di Gioacchino Murat, intimarono la soppressione degli ordini religiosi mendicanti e la confisca dei loro conventi; così anche a Sant’Elia, poco dopo il 25 maggio 1811, i commissari governativi costrinsero i religiosi ad abbandonare la casa e, invece di ritornare dalle proprie famiglie come la legge imponeva, si rifugiarono nel vicino convento di Campi che fu risparmiato (LECCE, Arch. di Stat, Intendenza di Terra D’Otranto; Affari Gen. Soppressioni Ordini Religiosi…fasc. 1377/1).  

Questa è la storia del convento di Sant’Elia. Ma cosa successe e cosa c’era prima della sua costruzione? Le fonti in nostro possesso (piuttosto recenti) ad oggi parlano di preesistenze basiliane e normanne, in particolare della “Grancia dei Calogeni”, una vera e propria azienda agricola basiliana… È importante far notare però, che la peculiarità di questi monaci provenienti dalla Grecia (scappati e rifugiatisi in terre salentine e non solo, a causa della persecuzione iconoclasta di Leone III Isaurico) era la pittura parietale. Infatti, giunti in Puglia, Basilicata e Calabria in cerca di protezione, si nascosero nelle cosiddette “laure”, grotte ipogee, dove ricrearono veri e propri ambienti sacri con pitture, altari e sedute. Fino ad oggi però, nulla di tutto ciò è stato trovato nel convento, per giustificare la presenza basiliana…

È stata ritrovata invece, un’iscrizione su una delle facciate interne della struttura conventuale: una “M” mariana e due lettere: “CO”, che secondo alcuni studiosi, potrebbe rappresentare la sigla “Madonna del Carmelo”, il che non è da escludere dato che l’ordine dei Carmelitani nacque sul monte del Carmelo, in Israele, sulle orme della vita ascetica e austera del profeta Elia, il cui nome è stato dato al convento stesso e a tutta la zona ad esso circostante. Inoltre, un’ulteriore conferma di questa ipotesi, risiede nel convento dei frati cappuccini di Campi Salentina (risalente forse al XVII secolo), che inizialmente fu occupato dai Padri Carmelitani (che risiedettero in quella zona prima dei Cappuccini), a cui è infatti ancora oggi, dedicata la chiesa.

Ulteriori scoperte sono state fatte durante le nostre recenti ricerche, una statuetta in pietra locale, rappresentante un uro (antenato del bovino di cui abbiamo tracce anche in un vecchio sito del pleistocene superiore, la grotta del Cardamone presso Novoli, ormai andata distrutta) e un piccolo pezzo di collana risalente all’età del bronzo che ad oggi possono farci ipotizzare la presenza messapica in loco.

Dopo varie comparazioni e studi, possiamo affermare che la statuetta rappresenta il tipico tintinnabula messapico, un passatempo in pietra che utilizzavano i bambini per i loro giochi; il piccolo pezzo di collana invece, rappresenta in tutto e per tutto un frammento di ornamento tipico dei nostri antenati.

Altri due ritrovamenti non meno importanti sono: numerosi cocci in ceramica romana (sigillata africana II-VIII secolo d.C.), di cui ancora non si sa la provenienza; un foro circolare scavato nel terreno, circondato da grosse pietre intagliate, seguendo la circonferenza, molto simile a quello ritrovato a Valesio, per cui lo si può datare in un lasso di tempo molto ampio ma significativo perché più antico del convento stesso, tra il VI secolo a.C. e il 1157, anno della distruzione di Valesio.

Ogni giorno questo luogo straordinario regala nuove sorprese, tra grotte, anfratti e tanto altro, è un tesoro che merita di essere riscoperto e studiato, l’abbandono “apparente” di cui è protagonista, è anche frutto di disinteresse nei confronti di una struttura che meriterebbe di essere valorizzata e tutelata anche grazie all’apporto e alla costante e massima attenzione da parte di tutti.

Le Amministrazioni, con il nostro aiuto e con quello di altri enti, stanno lavorando per poterlo valorizzare, senza nulla togliere all’aspetto storico-archeologico, difatti, grazie alle nostre ricerche e ritrovamenti, la Soprintendenza ha accettato di sottoscrivere il blocco archeologico sul convento, al fine di preservarne ogni suo prezioso aspetto storico.

Presto riprenderemo a fare quelle passeggiate bucoliche, ritornando indietro nel tempo e ripensando a quello che il nostro convento fu e che potrà tornare ad essere.

Marco Presta

© Riproduzione riservata

Foto in alto: Il complesso monumentale di Sant’Elia

 

Il gruppo speleologico ‘Ndronico durante un sopralluogo

Iscrizione con probabile riferimento alla Madonna del Carmelo

Statuetta rappresentante un uro (presumibilmente un tintinnabula messapico)

A sinistra il foro ritrovato a Valesio, a destra quello del Convento