Storia - 15 Mar 2021

“Torneremo forti e gloriosi”, ricordi della Grande Guerra

Vicende del conflitto contro l’Austria dal diario del cappellano don Umberto Lazzari. Fra gli autori del libro anche la salicese Luisa Mogavero


Spazio Aperto Salento

Chi volesse verificare l’attendibilità delle indicazioni fornite da Gérard Genette nel suo saggio Soglie, come egli definiva tutti gli elementi extratestuali che solitamente si presentano al lettore “alle soglie”, cioè in procinto di addentrarsi nei contenuti di un libro, in questa pubblicazione prodotta dal Gruppo “Memorie del passato” troverebbe ampio materiale di riscontro.

Il testo, dal titolo “Torneremo forti e gloriosi” (pagine 132, self-publishing), già ad un primo approccio tattile, estrinseco, di rapida scorsa, presenta innumerevoli allettamenti grafici e ragguagli redazionali intriganti e coinvolgenti. Ad iniziare dal frontespizio del libro, che oltre al titolo e al sottotitolo, riporta quasi ad anticipazione dell’autenticità documentale dei materiali pubblicati, il timbro originale dell’autore del diario, ed il riquadro fotografico che riproduce l’intestazione del manoscritto, vergata direttamente dalla mano dell’autore, “1915 Ricordi della Guerra contro l’Austria”. Solo in calce, ai margini del bordo inferiore, è riportata molto dimessamente l’indicazione degli artefici reali di questa pubblicazione, il gruppo “Memorie del passato”.

Che, dopo un doveroso esergo di Ungaretti, scopriamo essere stati il dottor Riccardo Ravizza, ideatore del progetto e coordinatore delle attività di ricerca e di redazione, ed un nutrito gruppo di suoi collaboratori, tutti altamente qualificati e specializzati in campi di ricerca strettamente attinenti all’assunto di questa loro impresa. Presentati in rigoroso ordine essi sono stati: Monica Apostoli e Maria Saccarello per le trascrizioni, Luisa Mogavero e Domenico Calesso per le ricerche negli archivi civili e militari, Enzo Santoro per la storia della Brigata Catanzaro, Alessandro Turri per i disegni, Rino Aversa per la faleristica, lo studio delle onorificenze. Maria Saccarello ha redatto anche la contestualizzazione del diario nell’inquadramento storico, e Domenico Calesso ha tracciato la storia dei cappellani militari. Da rimarcare, nel team, la presenza della salentina architetto Luisa Mogavero, nativa di Salice Salentino, da anni attenta studiosa e infaticabile ricercatrice di reperti storici della Grande Guerra, redattrice della biografia di don Lazzari.

Il libro, inoltre, è arricchito da una interessante e spesso inedita rassegna fotografica di luoghi, edifici, persone, oggetti ed armi della Grande Guerra, e impreziosito da notevoli disegni che ripropongono, in rappresentazione figurativa, particolari momenti ed avvenimenti descritti nel diario.

Una nutrita, accurata e specifica bibliografia offre al lettore gli strumenti più idonei per gli eventuali riscontri o approfondimenti, cui va aggiunta una essenziale sitografia e l’indicazione delle fonti archivistiche.

Di particolare impegno la documentazione archivistica, che per ogni militare citato nel diario comprende accurate e dettagliate ricerche biografiche inerenti l’origine, la funzione e l’esito di ciascun impegno sul fronte. Circostanze biografiche riversate in un apparato di note dense e minuziose, fonte di notizie preziose per i familiari che ne sfoglieranno le pagine. Per noi salentini spicca il rilievo documentale della n. 65 a p. 67 che, a proposito di un soldato colpito e deceduto il 24 settembre 1915, riporta: “Trattasi probabilmente di Miglietta Salvatore di Oronzo, soldato, nato il 10 novembre 1890 a Trepuzzi, Distretto Militare di Lecce, morto sul Carso per ferite riportate in combattimento”.

Gustosamente interessante è anche la sezione del libro che riproduce gli “Stornelli di guerra”, cioè la serie di quartine malthusiane, di origine futuristica, tendenti alla dissacrazione del lirismo tradizionale, oltre che per la forma ossessivamente ripetitiva dello schema metrico, anche per l’irrinunciabile sarcastica iconoclastia nei confronti dei valori ufficiali della borghesia. Anche i nostri soldati, nelle pause delle trincee, si sono divertiti con l’elaborazione di stornelli scherzosamente canzonatori, sul calco delle celebri quartine che in quegli anni Luciano Folgore pubblicava su “Lacerba”, spesso non-sense, ma sempre con un fondo di dileggio, come ad esempio:

La saliera è quella cosa
che ha la forma di un occhiale,
da una parte ci sta il sale
e dall’altra ci sta il pep. 

In questo caso gli autori del libro hanno corredato le quartine composte dai nostri soldati con le illustrazioni del bravo Turri, che richiamano molto da vicino le vignette originali di Josef Lada, che comparvero nella prima edizione de Il buon soldato Švejk, di Jaroslav Hašek.

Tuttavia un così robusto schieramento di serie professionalità e di accurate applicazioni di ricerca, di scavi biografici, di approfondimenti documentali, di reperimenti iconografici, di ricostruzioni cartografiche dei vari teatri di battaglia, eccetera, a noi appare sovradimensionato per un resoconto diaristico, questo di don Lazzari, che si esaurisce nella compilazione di un canovaccio di annotazioni che dal maggio del 1915 si arresta al marzo 1916. Si tratta, infatti, di appunti rapidi, scarni, essenziali, con descrizioni appena accennate, in un susseguirsi pressoché quotidiano di annotazioni su medesimi accadimenti bellici, bombardamenti, fucilerie, resoconti giornalieri delle perdite subite in feriti, in morti, in sepolture, eccetera. Scarse sono le riflessioni personali su un evento così estremo e sconvolgente, e quasi irrilevanti le presenze di un qualche giudizio ideologico o di un qualche assunto politico o filosofico dell’estensore. Un sussulto espressivo di una qualche personale convinzione politica ci sembra di coglierlo nella annotazione del 20 settembre 1915, quando l’autore scrive “La spoletta mi sfiora la testa con una violenza infernale. Mi faccio una risata perché capisco che è il saluto del XX settembre”. Con palese allusione all’ancora non risolta “questione romana”, rinfocolata dopo l’episodio di Porta Pia.

Ci saremmo aspettati, in sostanza, che in questo diario di guerra, redatto da un sacerdote, comparissero soprattutto le note più accorate e partecipi del dramma umano vissuto dai militari sotto l’implacabile sferza del fuoco nemico, il ripiegamento sulle loro sofferenze, la pietas per lo strazio dei loro corpi, il turbamento per il subbuglio delle loro anime. O, più in generale, il rilievo sull’assurdità della quotidiana carneficina, un qualche interrogativo sulle ragioni di tanta violenza, la riprovazione delle sopraffazioni e l’insensibilità delle alte gerarchie militari, la denuncia degli arbitri, ecc. Solo nell’affresco storico tracciato da Maria Saccarello troviamo, tra le altre verità, la raccapricciante rievocazione delle decimazioni, dei processi sommari, e addirittura delle esecuzioni immediate, volute con inaudita ferocia dalle massime autorità militari italiane, con l’unico intento di propinare il “buon esempio” ai commilitoni costretti ad assistere, terrorizzati ed esterrefatti, alla barbarie della fucilazione sul campo. Realtà alla quale la studiosa fa seguire la notazione secondo cui “il Regio Esercito Italiano con i suoi oltre 1000 fucilati operò ad ogni modo in maniera più dura e spietata in confronto ad altri eserciti, anche con tradizioni militari più severe delle nostre, come quello inglese o austriaco, facendo uso indiscriminato di esecuzioni senza processo”. Evidenza che già conoscevamo, oltre che per i resoconti storiografici, per la testimonianza diretta di tanti scritti di memoria e di denuncia, come Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu, da cui Francesco Rosi ha poi magistralmente tratto la rappresentazione del film Uomini contro. Ma che è assente nelle pagine di don Lazzari.

Anzi, in più di un passo del diario di don Lazzari ci è sembrato di scorgere i toni della esaltazione militaristica. Come succede, ad esempio, con l’esibizione della sua noncuranza delle granate che gli scoppiavano affianco, “ciò che per noi costituisce un divertimento ed esercizio di coraggio più che paura”. Ardore che talvolta raggiunge anche i toni spavaldi dello sciovinismo, come succede nella descrizione del lanciaruote Cantono, che “fece saltar per aria pietre e soldati nemici. L’impressione fu ottima e i risultati alquanto soddisfacenti”. Oppure quando descrive lo scoppio di uno schrapnel, che provocò “una risata generale: vi è qualcuno che rimane un po’ impressionato, ma vi è chi se la ride in barba a quei cani che non ci lasciano quieti nemmeno quando si ha il diritto di pigliare un boccone”. O ancora “Gli austriaci dimostrano così la loro barbarie, la loro crudeltà sotto ogni punto di vista; e poi si vantano di essere civili e religiosi: vigliacchi bugiardi!”. In questi passi più che il diario di un cappellano, a noi è sembrato quello di un combattente.

Noi tributiamo il massimo rispetto per la sacralità della sua missione spirituale in quella circostanza bellica, però non possiamo non rilevare il paradosso della inquietante funzione dei cappellani militari di infondere negli animi dei soldati “l’amor patrio, l’osservanza dei doveri, l’ardimento, l’obbedienza alle leggi e alla disciplina militare e la rassegnazione al sacrificio”, cui ciascuno andava incontro nello spasmodico intento di ammazzare il nemico. Gli stessi estensori di questa ricerca non hanno potuto sottacere il fatto storico secondo cui “non furono pochi i casi di Cappellani che vollero dare l’esempio del coraggio uscendo per primi dalle trincee incitando i soldati a compiere il loro dovere o, addirittura, mettendosi alla testa di reparti rimasti senza comandante guidandoli nell’assalto”. Integrandosi, così, in una funzione militaristica, in aperto contrasto con la professione di carità cristiana da esercitare nei confronti di tutti gli esseri umani. Ecumenismo reale che solo negli ultimi decenni la Chiesa ha riconosciuto, e che Papa Francesco ha sancito con l’enciclica Fratelli tutti.

Ma in quei tempi don Lazzari non poteva soffermarsi sulla insanabile contraddizione per la quale lo stesso Dio, “padre di tutte le genti”, come diceva il Manzoni, veniva invocato, per il tramite dei rispettivi cappellani militari, perché prestasse ascolto alle medesime richieste di aiuto e di vittoria che provenivano tanto dalle schiere dei soldati italiani che dalle trincee della cattolicissima Austria. Anche se poi don Lazzari era pienamente in grado di riconoscere che gli austriaci erano “tanto devoti di San Michele”, e che “non si lasciano sfuggire questo giorno senza maggiormente sfogare la loro ira verso l’Italia che in quest’anno gli proibisce il solito pellegrinaggio al Monte Santo di Gorizia, ove appunto volevano recarsi per festeggiare S. Michele”.

Certamente anche questo diario è di notevole interesse storico, perché cala il lettore direttamente tra le trincee italiane costantemente prese di mira da granate nemiche, fucilerie ed esplosioni di shrapnel. Si avvertono le sensazioni tangibili della battaglia, l’acre odore delle polveri da sparo, lo schianto delle esplosioni, le urla strazianti dei feriti e dei moribondi. Ma non si avverte il subbuglio dell’animo dell’autore, lo smarrimento delle sue certezze, l’insinuazione del dubbio sulla inevitabilità di quella immane tragedia, sulle spietate ragioni della politica e dell’economia che ridussero tanta parte di umanità a semplice “carne da cannone”.

Anche se ci è venuto alle mente per analogia, tuttavia è improponibile il confronto di questo diario con il Giornale di guerra e di prigionia di Carlo Emilio Gadda. Innanzi tutto perché diversi sono gli assunti di fondo e gli esiti delle due opere, ma anche perché il diario del “gran lombardo” è ricco di osservazioni minuziose sulle ragioni del conflitto, di riflessioni personali sulla precarietà della condizione militare, di meditazioni ed approfondimenti sulle scelte politiche e strategiche delle gerarchie, che lo porteranno alla evoluzione del suo pensiero sulla guerra, alla quale pure aveva aderito entusiasticamente da volontario.

Il pregio indiscutibile di tale pubblicazione sta, dunque, non tanto nell’aver riesumato e portato alla luce il resoconto diaristico del sacerdote don Lazzari, quanto piuttosto nella passione, nella dedizione, nell’impegno e nella tenacia che i collaboratori di tale iniziativa hanno profuso a piene mani, nella encomiabile tensione culturale di porgere alla nostra consapevolezza la testimonianza storica di un osservatore diretto della tragedia bellica. E soprattutto nella restituzione, a nome di tutti gli italiani, di un doveroso risarcimento morale di memoria e di pietà all’immane sacrificio in vite umane, in sofferenze, in umiliazioni di ogni genere di tanti poveri fanti di ogni parte d’Italia. Strappati alle loro famiglie, alle loro campagne, alle loro officine, alle loro umili applicazioni di lavoro, spesso nella disarmante inconsapevolezza delle ragioni di quella interminabile guerra. Scatenata per assecondare, nella più ottimistica prospettiva interpretativa, la retorica della “patria” minacciata e usurpata dallo straniero. Per tacere dei mastodontici interessi economici, dinastici, militaristici, politici, nazionalistici e interventistici che ne determinarono la scelta. Motivata ufficialmente con lo scopo di conseguire il recupero di quei territori irredenti che Giolitti, forse, avrebbe potuto ottenere diplomaticamente, senza lo spargimento di una sola goccia di sangue italiano.

Antonio Scandone

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