Assieme ai celeberrimi “Ori”, lo Zeus di Ugento, le Veneri di Parabita e l’Idoletto di Arnesano, star di una delle collezioni più ricche al mondo. Nel percorso espositivo, anche la statuetta egizia del Dio Thoth, trovata a Porto Cesareo, ed il tesoretto monetale di Nociglia
Nel Museo Archeologico Nazionale di Taranto, alla scoperta dei più importanti reperti “made in Salento”. Custoditi e protetti fra mille preziosissime bellezze, in testa i celeberrimi “Ori di Taranto”, raffinati monili d’epoca ellenistica e romana del III-IV secolo avanti Cristo, spiccano lo Zeus di Ugento, le Veneri di Parabita e l’Idoletto di Arnesano. Ai quali vanno aggiunti la statuetta del Dio egizio Thoth, che sebbene non prodotta nella penisola salentina, venne rinvenuta nel mare di Porto Cesareo, ed il “tesoretto” di monete di Nociglia.
LO ZEUS DI UGENTO
Lo Zeus di Ugento (© T.B.)
Nel ricco ed elegante percorso espositivo, lo Zeus, statua bronzea magno-greca del 530 avanti Cristo alta 74 centimetri, è una delle maggiori attrazioni. Nel 1961, la sua scoperta, ad opera di operai al lavoro in un’abitazione privata mentre scavavano a mani nude, attirò l’attenzione dell’allora presidente della Pro Loco, Sofia Nicolazzo Codacci-Pisanelli, e del pittore, scrittore e giornalista Salvatore Zecca, che nelle vesti di ispettori onorari della Soprintendenza Archeologica, per essere analizzata e studiata, la fecero approdare a Roma. In un primo tempo, si ritenne che il “pupo”, come gli ugentini presero a nominare la scultura, rappresentasse il dio Nettuno-Poseidone. Venne comunque attribuita ad uno scultore attivo nell’antica colonia spartana di Taras-Taranto, e si ipotizzò fosse stata commissionata per un santuario dedicato al dio Zis Batàs, lo Zeus saettante della cultura messapica, signore della folgore e protettore dei naviganti. Dal 1969 alberga nel Museo del capoluogo jonico, e raffigura uno Zeus nudo con barba corta, baffi, capelli ricci, lunghe trecce e copricapo di alloro con al centro un diadema, fissato nel metallo mentre con la mano destra scaglia un fulmine, e nella sinistra stringe gli artigli di un’aquila andata purtroppo persa. Lo Zeus di Ugento, che nella fattura richiama la statua del Cronide di Capo Artemisia, rinvenuta nel mare dell’isola greca di Eubèa, oggi conservata nel Museo Nazionale di Atene, costituisce l’unico esempio rimasto in Puglia di statua bronzea realizzata con la tecnica della cosiddetta fusione a cera persa. Della colonna sulla quale si ritiene fosse collocata, in un’area sacra a cielo aperto mai identificata, resta solo il capitello dorico in pietra leccese, della stessa altezza di 74 centimetri, decorato sulla parte terminale, l’abaco, da un fregio di rosette. Fedele all’originale, una copia, realizzata dallo scultore turco Murat Cura, può essere ammirata nel Museo Archeologico di Ugento.
LE VENERI DI PARABITA
Custodite in una teca trasparente, le Veneri sono due sinuose statuette, e come si evince dalla denominazione, rappresentano altrettante figure femminili. Grandi pochi centimetri (una 12, l’altra 6), sono scriccioli realizzati in osso di erbivori di grossa taglia, un cavallo o forse un bue, fra i 12 ed i 14mila anni fa, e dunque in epoca preistorica. Anche per questo note come Veneri Preistoriche o Paleolitiche, vennero alla luce nel 1966 nella grotta Nicola Fazzu, nella località Monaci di Parabita, al confine col territorio comunale di Tuglie, durante una campagna di scavi diretta dallo speleologo di Galatina, Giuseppe Piscopo. Oltre che dall’importanza della scoperta, compresi circa 400 manufatti, migliaia di frammenti di ceramica ed una sepoltura con corredo, lo scopritore e la sua equipe, composta fra gli altri dal figlio studente, Antonio Cesare, e dal giovane ricercatore Antonio Greco, tutti del Gruppo speleologico salentino, vennero colpiti dal loro status. Con i visi avvolti in un velo, che potrebbe essere anche un’acconciatura oppure una maschera, e le parti anatomiche bene evidenziate, le Veneri si presentavano con le braccia incrociate sul ventre gravido, giusto come in alcuni altri esemplari, questi in avorio di mammuth, rinvenuti in Russia lungo la sponda Occidentale del fiume Don, nei pressi del sito archeologico di Kostyonki-Borshchyovo, e nel territorio di Avdejevo in Ucraina. Per la presenza di un minuscolo foro nell’estremità distale, secondo alcuni studiosi, potrebbero aver svolto una funzione decorativa, mentre per altri, potrebbero essere state utilizzate come utensili.
L’IDOLETTO DI ARNESANO
L’Idoletto di Arnesano (© T.B.)
Nel rione Riesci del Comune di Arnesano, nel 1968, durante lo scavo per la realizzazione, in una casa privata, di un pozzo per la raccolta dei liquami, al riparo d’una lastra di pietra, gli operai al lavoro, s’imbatterono in una tomba a grotticella, cosiddetta perché ricavata artificialmente in una parete di roccia. In parte distrutta dai colpi di piccone inferti per aprirla, al suo interno celava ancora lo scheletro di un giovane adulto, con accanto il corredo funerario: due ollette ed una coppa brunite, tutte prive di decorazioni, ed un altro stupefacente oggetto. Una statuetta antropomorfa in calcare tenero, alta 35 centimetri, 12 dei quali occupati dalla testa, alla quale gli esperti, che la collocarono tra i 4500 ed i 4000 anni prima della venuta di Cristo, e dunque in età neolitica, diedero il nome di Idoletto di Arnesano. Scolpita senza braccia ed arti inferiori, ha il volto di civetta, come ne sono stati rinvenuti nel mare Egeo, nell’isola di Cipro e nella tomba a cupola, la tholos, di Agìa Triàda nell’isola di Creta, oltre che nel sito funerario Cuccuru Is Arrius in Sardegna. Già nel 1887, nel rione Riesci, il medico di Lizzanello, Cosimo De Giorgi, appassionato di archeologia e paleontologia, portò alla luce i primi resti di un importante Villaggio rurale del Neolitico, oggi Parco didattico, con tracce di fondamenta di capanne, vasche per la raccolta delle acque piovane, conche di combustione e tratti di mura e di strade.
IL DIO EGIZIO
La statuetta del Dio Thoth (© T.B.)
La star della Sala XXI del grande Museo tarantino, è la statuetta egizia in basalto verde del IV secolo avanti Cristo, corrispondente alla XXX dinastia dei Re-Faraone che governarono l’Egitto. Fra le più venerate della cultura che fiorì lungo le sponde del fiume Nilo, raffigura un babbuino con la testa di cane, comunemente associato a Thoth, il dio della Luna, delle scienze e della scrittura, e per questo protettore degli Scribi, nonché padrone dei maghi e maestro del tempo, deputato a presiedere al mondo dei morti e degli inferi. Si tratta della stessa divinità, che proprio con riferimento alla scrittura, gli egiziani rappresentavano anche con le sembianze dell’Ibis, l’uccello il cui becco, mentre cerca il cibo nell’acqua, si muove come scrivesse. Incisa alla base, l’affascinante scultura, realizzata con le zampe anteriori posate sulle ginocchia e la coda ripiegata su di un basamento di forma rettangolare, reca l’iscrizione geroglifica col nome della città di Ra-Nefer, dalla quale doveva provenire. La sua scoperta risale al 1932, e si deve a tre pescatori di ricci, che all’opera attorno all’isoletta di Porto Cesareo detta della Malva, scandagliando il fondale sabbioso profondo quattro metri con una “vroncioddha”, un’asta dotata di un uncino all’estremità, s’imbatterono nell’inusuale manufatto. A dar credito alle ricostruzioni degli esperti, in mare la statuetta del Dio Thoth sarebbe finita in seguito al naufragio di una delle navi onerarie romane, che così come è ampiamente attestato in numerosi ed antichi documenti, con il carico di mercanzie, trasportavano da una sponda all’altra del Mediterraneo, anche suppellettili, amuleti, ed appunto, sculture. Giusto come testimoniano altre due importanti scoperte, a Sibari e nella vicina Lecce, peraltro attestanti lo svolgimento di riti egizi nell’Italia Meridionale. A Sibari, la città della Magna Grecia che i romani chiamavano Copia, venne scoperto un Tempio, detto Iseo, dedicato alla Dea della fecondità e della maternità, Iside, e nel capoluogo salentino, che in epoca romana era nominato Lupiae, un Santuario eretto in onore della stessa divinità. Nel palazzo Vernazza-Castromediano dove si trova, nel cuore della Lecce antica, oltre alla scritta dedicata all’imperatore romano Tiberio Giulio Cesare Augusto: Tiberinus Isidi (Tiberio dedica ad Iside), è pure venuta alla luce la testa di una statua della dea. Il Dio egizio Thoth, è l’Hermes greco venerato in tutto l’Egitto, dove il suo culto aveva sede nella città di Khemenu, in egizio antico Città degli Otto, che non a caso, veniva chiamata dai greci Hermoupolis, città di Hermes. Il Mercurio latino, figlio del padre di tutti gli dei, Zeus, del quale era il messaggero, e della ninfa Maya.
IL TESORETTO DI NOCIGLIA
Moneta in argento di Taras (© T.B.)
Il suo ritrovamento, in un vaso di coccio di un vigneto della campagna nocigliese, ha rafforzato, nella credenza popolare, la mitica presenza sottoterra od al riparo del pavimento delle case, della cosiddetta “acchiatura”. La casuale scoperta, cioè, di un tesoro in monili o monete di metallo prezioso. Quello venuto alla luce a Nociglia nel 1937, è composto da 58 monete d’argento di epoca romana, che unitamente alle molte altre in mostra (mirabili quelle con l’effigie di Taras, figlio di Poseidone, salvato dal delfino, poi divenuto stemma della città di Taranto), fanno parte della ricca collezione numismatica del Museo jonico. Di grande varietà iconografica, sullo sfondo degli scontri sociali fra Roma e le popolazioni del Sud Italia, il tesoretto monetale della Nucillium-Nociglia romana del III secolo avanti Cristo, epoca di invasione dei centri messapici del Salento proprio da parte degli eserciti della Città Eterna, è indicativo della fusione di genti e culture. In esso, come certificato dagli studi del docente di Numismatica dell’Università del Salento, Giuseppe Sarcinelli, spiccano i Dioscuri a cavallo, la lupa con Romolo e Remo, alcune divinità come Giano Bifronte, e la dea Roma assieme ad Ercole, in alcuni casi con l’aggiunta dell’indicazione del responsabile della loro emissione.
Toti Bellone
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Foto in alto: Le Veneri di Parabita (© T.B.)