Arte - 22 Dic 2020

Il “Laudate Deum” di Giangrande, un episodio di arte sacra contemporanea nella tradizione musiva salentina

L’opera arreda il lato sinistro dell’ingresso moderno del Cimitero comunale di Squinzano


Spazio Aperto Salento

Il Laudate Deum (210 x 110) di Alberto Giangrande, squinzanese d’origine e per anni docente al Liceo Artistico di Lecce, è un’originale opera musiva che nel titolo riprende le prime parole del salmo 150 Laudate Deum in chordis et organo, ma soprattutto, per una serie di motivi, merita alcune riflessioni nell’ambito dell’arte sacra, senza tralasciare la ormai collaudata produzione (sacra e profana) dell’artista salentino. Inaugurata il 12 ottobre 2007, l’opera è stata realizzata su committenza e arreda il lato sinistro dell’ingresso moderno del Cimitero Comunale di Squinzano (Lecce).

È degna di considerazione, in primo luogo, per la singolare ed inedita impaginazione iconografica di un tema che per l’artista presentava, all’origine, inevitabili vincoli compositivi. Si trattava, infatti, di svolgere un argomento assai comune nella produzione artistica di diverse epoche, senza cadere nel tradizionale, ma soprattutto senza scadere in soluzioni formali ormai sperimentate. Occorreva coniugare, infatti, il tema della morte con la concezione cristiana della resurrezione; bisognava legare il dolore alla gioia, la certezza della fine alla verità della continuità; era necessario trasmettere per immagini l’idea cristiana che la morte non è la fine ma un confine.

Impresa, peraltro, non certo semplice anche perché bisognava risolvere il complesso argomento sintetizzandolo in una sola opera. Sarebbe stato diverso se ci fosse stata la possibilità di creare una serie di pannelli che, legati tra loro dal medesimo tema conduttore, sarebbero stati più fruibili dal vasto pubblico.

Giangrande, nell’ideare l’opera, pensa di partire dal tema comunissimo della crocifissione, che, nell’immaginario collettivo, rende più di tutti l’idea della morte, della sofferenza e del distacco. Colloca, perciò, al centro della composizione Gesù crocefisso con l’immancabile scritta «I.N.R.I.» che, a lettere rosse, attesta il capo d’imputazione.

Documentandosi, poi, sulle soluzioni iconografiche che trattano il tema del Compianto su Cristo morto, ricorre all’inserimento degli angeli, che sono assai documentati con il particolare ruolo di accompagnatori dell’evento, talvolta riprodotti in volo mentre gridano al sacrilego deicidio, ma che sono assai comuni, inseriti in diversi contesti ben definiti, nella produzione artistica di diverse epoche, come ad esempio nei presepi monumentali (in legno, in pietra o in marmo) oppure nella trattazione del tema di Cristo morto tra gli angeli.

Giangrande, però, propone angeli musicanti, che talvolta sono attestati in opere a sé stanti, come ad esempio, nel ricco repertorio di schiere angeliche che Gaudenzio Ferrari dipinge nel 1532 nella Cupola del Santuario della Beata Vergine dei Miracoli di Saronno. Va, comunque, detto che è insolita la presenza di angeli musicanti in opere che trattano il tema della crocifissione, un argomento sia pure legato allo stesso concetto della morte. Tuttavia, una rapida consultazione dei più famosi monumenti funerari d’età moderna può attestare la diffusione delle figure degli angeli, i quali per lo più sono proposti come interpreti del dolore collettivo. Ma, anche in questa produzione, non vi sono angeli musicanti.

A ciò si aggiunga che, nell’opera di Giangrande, gli angeli musicanti non sono utilizzati come graziosi riempitivi né come accompagnatori di qualche evento, ma sono parte integrante della narrazione.

Infatti, all’estrema sinistra dell’opera è raffigurato un angelo che suona una viola da gamba, impugnando con la mano sinistra l’archetto. Solitamente lo strumento si suona tenendolo tra le ginocchia e appoggiato a terra. In questo caso l’angelo lo suona in ginocchio senza l’appoggio fisico, perché non poteva esserci nessun sostegno in un contesto in cui prevale la afisicità.

Sull’estrema destra, un altro angelo suona delicatamente con le dita un chitarrone, uno strumento cordofono assai simile al mandoncello.

Un terzo angelo, raffigurato di spalle in basso a destra, intento nell’adorazione guarda il Crocefisso, e non è escluso che anch’egli suoni uno strumento musicale non visibile perché coperto dal suo corpo e dalle sue ali. In realtà, nelle intenzioni dell’artista i due solisti, impegnati in un’attività concertistica, sono immagini simboliche e più verosimilmente il terzo angelo, occupando il posto che solitamente nelle scene della crocifissione è preso da S. Giovanni o dalla Maddalena, potrebbe rappresentare l’intermediario tra l’umano e il divino, se non ci fossero altri fatti a smentirlo.

È abbastanza noto che, nell’iconografia sacra, lo strumento musicale è un collaudato simbolo dell’armonia divina del cosmo ed è risaputo che gli angeli musicanti, mediatori dell’armonia divina e di quella del creato, suggeriscono l’azione salvifica della musica celestiale. La musica è, quindi, intesa come specchio dell’armonia divina.

Nel Laudate Deum non siamo, perciò, in presenza della raffigurazione del sacrificio della croce che si consuma tra spasimi ed inondazioni di sangue che fuoriesce dalle ferite aperte del Cristo. Gesù Cristo sulla croce, infatti, è senza piaghe; perfino la corona di spine non lascia traccia di ferite. Egli guarda profondamente l’angelo in basso che, a questo punto, è l’immagine riassuntiva dell’anima immortalis che anela ricongiungersi con Dio.

A ben riflettere, infatti, il retroterra iconografico dell’angelo è da ricercare nelle raffigurazioni tradizionali di psyche che spesso appare riprodotta sotto l’aspetto di umile creatura alata secondo l’iconografia diffusa nella prima arte cristiana e proposta come simbolo sia di resurrezione dalla morte sia di eterna beatitudine. Anzi, in ambito protocristiano, Psiche è spesso raffigurata con Eros, un mito classico applicato al rapporto d’amore di Cristo con l’anima del credente.

Giangrande si documenta e decide di proporre delle varianti all’iconografia che solitamente troviamo nelle epigrafi sepolcrali o negli affreschi catacombali, in cui Psiche è raffigurata davanti a Cristo in trono, affiancato da due apostoli. Nel Laudate Deum Cristo in trono è sostituito da Cristo in croce e, lateralmente, i due angeli musicanti prendono il posto dei due apostoli. Inoltre, secondo una conosciuta tradizione letteraria, l’anima, nel momento in cui abbandona il corpo per vivere con Cristo, attraversa l’atmosfera sotto forma di colomba e raggiunge il cielo.

Perciò, le monumentali figure angeliche del Laudate Deum, proposte con il consueto valore semantico di positività, sono splendenti, nel volto e nelle vesti, ma soprattutto nelle ampie e maestose ali, il cui effetto di luminosità abbagliante è formalmente garantito, o meglio amplificato, dal colore blu cobalto del cielo che fa sbalzare il loro chiarore verso lo spettatore attirandone l’attenzione. Tutta la composizione, del resto, si risolve nell’ambito della luce sino all’intensità cromatica delle bionde capigliature ben acconciate degli angeli che sono più evidenti perché in contrasto con il nero dei capelli di Cristo disposti disordinatamente con un realistico riferimento alla sua umanità.

Siamo, allora, in presenza di una visione più celestiale che terrena, più divina che umana, dove regna la purezza perfetta, demandata al chiarore delle ampie ali che, occupando gran parte della scena, nascondono la vista delle piaghe di Cristo.

La scelta dei colori degli abiti degli angeli, pertanto, non è casuale. L’angelo sulla sinistra ha una veste verde, un colore intermedio che è simbolo della contemplazione e dell’attesa della resurrezione. È, inoltre, il colore della virtù cardinale della Speranza e, in certi contesti, è il colore del Paradiso. Nel Medio Evo molti artisti dipingono di verde la croce di Cristo considerandola strumento del rinnovamento del genere umano attraverso il sacrificio del Cristo. Questa simbologia, nel Laudate Deum, è affidata alla corona di spine verde smeraldo che circonda il capo del Crocifisso.

L’angelo di destra ha la veste viola, simbolo di riflessione, di misura, di amore, di saggezza. Il viola è il colore liturgico dell’Avvento e della Passione. In molte immagini medioevali Cristo è raffigurato con una veste viola durante la passione; perciò è considerato il colore dell’espiazione. Tutta la scena ha come sfondo il cielo, solitamente considerato sede di entità superiori all’uomo, ma non è il cielo buio che scende sulla terra dall’ora sesta all’ora nona.

A prima vista la scena sembrerebbe ricalcare comuni schemi compositivi, proponendo solo delle varianti di sicuro esito comunicativo, se l’artista non avesse collocato in basso, al centro della composizione ed in asse con la figura di Cristo, una nota umanamente dolorosa di grande efficacia plastica.

Impostata in direzione frontale allo spettatore è raffigurata una donna a mezzo busto, che stranamente volge le spalle all’intera scena, la quale sembrerebbe fissa e ferma in un tempo indeterminato se non ci fossero le grandi e luminose ali spiegate degli angeli che, con la loro ampiezza, suggeriscono l’idea del movimento insieme alle macchie chiare che caratterizzano e definiscono l’estensione e la profondità del cielo.

La donna ha tutta l’apparenza di una madre che, in atteggiamento di preghiera, guarda in basso, nella dignitosa straziante consapevolezza della morte del figlio, come accade in tanti gruppi scultorei che trattano il tema del Compianto su Cristo morto.

Il volto giovanile, composto nel dolore, ricorda note opere di artisti famosi in cui è raffigurata la Vergine Madre, figlia del tuo figlio di dantesca memoria, privilegiando i toni realistici e l’interpretazione sentimentale. Ma, contrariamente alle tradizionali fonti evangeliche e devozionali, che riferiscono nell’evento narrato la presenza di altri personaggi raffigurati nelle versioni più rigorose del tema del Compianto su Cristo morto, nell’opera di Giangrande la Mater dolorosa è sola, chiusa nel suo dolore, con il viso rigato da lacrime di sangue, in cui è contenuta tutta la disperazione che nel privato si consuma solitaria e inconsolabile. Sembra avere strozzato in gola il grido di Marta, sorella di Lazzaro: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto» (Giovanni, 11, 21). Ciò che sorprende è che il suo sguardo, diretto verso la parte inferiore dell’opera, continua la sua traiettoria fuori dallo spazio musivo utilizzato dall’artista, dove si aspetterebbe di individuare e di identificare il corpo di Cristo morto, ma dove a questo punto potrebbe esserci il corpo di chiunque. La stessa collocazione della figura della donna, nell’armonia compositiva della scena, è a metà strada tra Dio e gli uomini.

La lettura dell’opera di Giangrande deve, quindi, iniziare da qui, dalla madre che vive la terribile esperienza di chi vede morire il proprio figlio.

Nel suo volto, reclinato e coperto da un velo, riprodotto con lo stesso colore della volta del cielo, traspare un dolore che figurativamente è affidato ai singoli tratti della faccia, alla fronte arcuata, agli occhi affossati nell’orbita ed appesantiti dalla linea delle sopracciglia, alla bocca con le labbra serrate, a tutti quegli elementi preposti a descrivere la naturale sofferenza di chi consegna il proprio caro per la sepoltura.

Alberto Giangrande, quindi, in questa singolare opera vuole dire che il dolore individuale di Maria è anche un dolore collettivo e perciò interessa tutti; vuole evidenziare che la morte non è un lontano fatto di cronaca ma è un fatto che riguarda il presente; vuole chiarire e rassicurare che il Calvario può essere affrontato, capito e superato come nella scena ribaltata alle spalle di Maria, dove Cristo spirante e sofferente diventa Cristo taumaturgo e glorioso.

Il Laudate Deum, perciò, ammonisce con la stessa intensità della citazione dell’Ecclesiaste Vanitas vanitatum et omnia vanitas – che campeggia a larghe lettere sull’adiacente monumentale ingresso antico del Cimitero – che non c’è riscatto senza difficoltà, che non c’è redenzione senza rinuncia, che non c’è salvezza senza sacrificio, ma soprattutto avverte che l’intermediario può essere soltanto Maria, la Mater Dei e perciò Mater hominum, la quale, advocata nostra, assicurando il superamento del patetico a vantaggio dell’amabile, è l’unica e sola che può garantire a tutti la consolazione spirituale e materiale.

Paolo Agostino Vetrugno

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