Cultura/Storia - 07 Ott 2022

“Auschwiz, crocevia della storia”, l’Olocausto e il grido di Gesù sulla Croce

Affinché non avvenga ancora. Riflessioni e note di monsignor Fabio Ciollaro, vescovo di Cerignola, sul saggio firmato dal salentino Antonio Nicola Vitale


Spazio Aperto Salento

Si è tenuta pochi giorni fa, nella cornice di Palazzo Nervegna a Brindisi,  la presentazione di  un denso saggio sull’Olocausto, sulle sue premesse storiche e sulle sue brucianti implicanze. S’intitola: “Auschwitz, crocevia della storia. Perdizione e memoria”, opera di ragguardevole spessore del preside Antonio Nicola Vitale, pubblicato recentemente dalla Locopress di Mesagne, per conto di “Locorotondo editore”, una casa editrice locale che fa onore al nostro territorio.  Il preside Vitale, stimatissimo docente e dirigente scolastico per lunghi anni, è un autore fecondo. Portano il suo nome in copertina altri libri, di genere diverso, che manifestano vasti orizzonti culturali e nobile cuore. Ma questo volume è sicuramente la sua opera maggiore, frutto di maturità, di studi pazienti, di prolungate meditazioni sulla storia, e giustamente la sua  consorte Rosa Maria, in limine vitae, gli raccomandava di portarlo a termine. Ciò che egli ha fatto, anche come tributo d’amore verso di lei.

Il libro è  scritto in modo nitido e scorrevole, ma è da leggere a piccole dosi. Il pregio della forma, infatti, riveste contenuti di fortissimo impatto, che inducono a riflettere, a provare vergogna, a porsi tante domande. Se ne ha riprova fin dall’avvincente Prefazione che apre il testo, come una sorta di struggente ouverture, dolente succedersi di variazioni sul tema di Se questo è un uomo di Primo Levi, accorato appello a non perdere la memoria, perché “è accaduto una volta, quindi può accadere ancora”.

La mia attenzione, come si può comprendere, è stata attirata in modo particolare dal capitolo sull’antigiudaismo cristiano, cioè sul modo sbagliato con cui il cristianesimo si è differenziato e spesso contrapposto all’ebraismo. Non si può negare la storia, benché i coefficienti di certi fenomeni storici siano molteplici e complessi. La storia si fa sui documenti e i documenti a questo riguardo a volte fanno arrossire. Almeno col senno di poi.

Non posso entrare qui nei dettagli di questa pagina nera. Per fortuna, pur nel quadro di discriminazioni e vessazioni,  non è mancato in qualche modo qualche segno di rispetto. A questo proposito, nella diocesi di Brindisi-Ostuni, mi sembra opportuno richiamare la figura di san Lorenzo da Brindisi. Come è noto egli svolse molti compiti, diplomatici o pastorali, a servizio dei Papi del suo tempo. Poliglotta e di formidabile memoria, stupì per vari motivi i suoi contemporanei. Lo stimavano perfino gli Ebrei del ghetto di Roma. Secondo le leggi di allora, una volta alla settimana, il sabato, gli ebrei romani erano tenuti ad ascoltare una predica indirizzata specificamente a loro.

Si noti: non erano forzati a convertirsi, dovevano solo ascoltare. Si può immaginare con quale scarso interesse essi prestassero orecchio a queste prediche obbligatorie. Inoltre, purtroppo non mancavano predicatori che in tali occasioni scadevano in forme di provocazione o comunque umilianti verso quell’uditorio che era lì in modo coatto. Abbiamo invece diverse testimonianze sul fatto che quando questo compito era svolto da padre Lorenzo da Brindisi, le cose andavano diversamente.  Egli parlava loro in ebraico, evidenziando in tutti i modi la vicinanza tra la religione ebraica e quella cristiana, partendo dalla Bibbia, citata nei testi originali in lingua ebraica e anche dalle interpretazioni date dai rabbini più famosi. Mostrava una conoscenza sorprendente degli usi e dei costumi del popolo ebraico, tanto che cominciarono a pensare che lui fosse un ebreo divenuto cristiano. Ha raccontato un testimone:

“Io medesimo l’ho sentito predicar in Roma a gli Hebrei cinque o sei volte in circa il giorno di sabato; et ho sentito degl’Hebrei all’hora dire che non era possibile che questo padre non fosse stato prima hebreo, mostrando lui tanta cognitione delle cose hebraiche”.

Tutto questo in pieno ‘600.  Le cose comunque non sempre andavano in modo così rispettoso. L’antigiudaismo cristiano, che poteva innescare forme di antisemitismo, o per lo meno offrirne il pretesto, durò ancora a lungo. Venne però, grazie al Cielo, la ventata di aria fresca che papa Giovanni XXIII portò anche in questo ambito e che il Concilio Vaticano II recepì e tradusse in orientamenti inequivocabili. E contro ogni possibile rigurgito di antisemitismo, è importante ritornare alla parola chiarificatrice del Concilio:

Essendo tanto grande il patrimonio spirituale comune a cristiani e ad ebrei, questo sacro Concilio vuole promuovere e raccomandare tra loro la mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto con gli studi biblici e teologici e con un fraterno dialogo. E se le autorità ebraiche con i propri si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione, non può essere imputato né indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo. E se è vero che la Chiesa è il nuovo popolo di Dio, gli Ebrei tuttavia non devono essere presentati come rigettati da Dio, né come maledetti, quasi che ciò scaturisse dalla sacra Scrittura. Curino pertanto tutti che nella catechesi e nella predicazione della parola di Dio non si insegni alcunché che non sia conforme alla verità del Vangelo e dello Spirito di Cristo. La Chiesa inoltre, che esecra tutte le persecuzioni contro qualsiasi uomo, memore del patrimonio che essa ha in comune con gli Ebrei, e spinta non da motivi politici, ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo e da chiunque. In realtà il Cristo, come la Chiesa ha sempre sostenuto e sostiene, in virtù del suo immenso amore, si è volontariamente sottomesso alla sua passione e morte a causa dei peccati di tutti gli uomini e affinché tutti gli uomini conseguano la salvezza. (Dichiarazione “Nostra aetate” sulla relazione della Chiesa con le religioni non cristiane).

Il nuovo rapporto del cristianesimo con l’ebraismo aiuta a sperare che l’antisemitismo non prenda mai più a pretesto pseudo-motivazioni religiose. Gli storici onesti, inoltre, sanno valutare l’infondatezza delle accuse rivolte a Pio XII, che si prodigò a salvare quanti più ebrei possibili, nascondendoli nei conventi e nei seminari di Roma, mentre ritenne controproducenti attacchi plateali alla follia del fuhrer, perché avrebbero scatenato solo reazioni furibonde e immediate ritorsioni a ulteriore danno per il popolo ebraico. Del resto, se “silenzio” fu quello di Pio XII, non dovremmo chiederci perché anche oggi non si parli ad alta voce della questione palestinese? Perché lo Stato di Israele che nasce dopo la Shoà, non sembra averne imparato la tragica lezione per quanto riguarda il suo rapporto con gli arabi della Palestina? Quando si va in pellegrinaggio in Terra Santa si resta allibiti davanti all’impensabile muro di cemento che divide per kilometri e kilometri il territorio di Betlemme da quello della vicinissima Gerusalemme. Ma con la questione palestinese possiamo richiamare anche quella armena. Perché l’Occidente evita di pronunciare perfino l’espressione genocidio armeno per non irritare il presidente turco Erdogan? Eppure la storia è storia! Dunque, non dobbiamo meravigliarci troppo di certi silenzi prudenziali, a volte con intenzione retta, a volte solo per calcolo e opportunismo.

Resta invece in tutta la sua portata l’ineludibile questione affrontata dall’autore nell’impressionante capitolo finale sul “silenzio di Dio”. Dinanzi alle disumane atrocità dei campi di concentramento si rimane sconcertati sugli eccessi indicibili della malvagità umana. Perché è potuto accadere tutto questo? Se anche al vertice gli ordini partivano dalla mente di uno squilibrato, ubriaco di potere, non si riesce a capire del tutto perché egli abbia  trovato supini collaboratori e ciechi  esecutori tanto numerosi. Ma un interrogativo ancora più radicale e lacerante sale nell’animo dei credenti. Dov’era Dio quando accadevano queste cose? Perché Egli ha sopportato tutto questo? Perché non ha revocato la libertà umana, immobilizzando il gruppo di criminali che ha pianificato e compiuto la Shoà? Perché non li ha fulminati? Perché non è intervenuto direttamente?  Sono domande che non si possono aggirare o sottacere. E infatti il preside Vitale non esita a mettere a fuoco questi interrogativi così conturbanti. Sono domande che provocano anche la fede del credente. La fede non è fideismo, non rinuncia a priori all’uso della ragione. Il “silenzio di Dio”  dinanzi al male più efferato sembra contraddire la sua bontà o la sua onnipotenza, e in definitiva sembra negare la sua stessa esistenza. Benedetto XVI, nel suo lucido magistero, non ha ignorato questi interrogativi e li ha posti innanzitutto a se stesso, come cristiano e come tedesco. Entrando nel campo di Auschwitz-Birkenau il 28 maggio 2006 egli ha detto:

Prendere la parola in questo luogo di orrore, di accumulo di crimini contro Dio e contro l’uomo che non ha confronti nella storia, è quasi impossibile – ed è particolarmente difficile e opprimente per un cristiano, per un Papa che proviene dalla Germania. In un luogo come questo vengono meno le parole, in fondo può restare soltanto uno sbigottito silenzio – un silenzio che è un interiore grido verso Dio: Perché, Signore, hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo?… Ci vengono in mente le parole del Salmo 44, il lamento dell’Israele sofferente: “…Tu ci hai abbattuti in un luogo di sciacalli e ci hai avvolti di ombre tenebrose… Per te siamo messi a morte, stimati come pecore da macello. Svégliati, perché dormi, Signore?” (Salmo 44,20.23) …Dobbiamo rimanere con l’umile ma insistente grido verso Dio: Svégliati! Non dimenticare la tua creatura, l’uomo! E il nostro grido verso Dio deve al contempo essere un grido che penetra il nostro stesso cuore, affinché si svegli in noi la nascosta presenza di Dio – affinché quel suo potere che Egli ha depositato nei nostri cuori non venga coperto e soffocato in noi dal fango dell’egoismo, della paura degli uomini, dell’indifferenza e dell’opportunismo. Emettiamo questo grido davanti a Dio, rivolgiamolo allo stesso nostro cuore, proprio in questa nostra ora presente, nella quale incombono nuove sventure, nella quale sembrano emergere nuovamente dai cuori degli uomini tutte le forze oscure: da una parte, l’abuso del nome di Dio per la giustificazione di una violenza cieca contro persone innocenti; dall’altra, il cinismo che non conosce Dio e che schernisce la fede in Lui. Noi gridiamo verso Dio, affinché spinga gli uomini a ravvedersi, così che  riconoscano che la violenza non crea la pace, ma solo suscita altra violenza – una spirale di distruzioni, in cui tutti in fin dei conti possono essere soltanto perdenti…

I potentati del Terzo Reich volevano schiacciare il popolo ebraico nella sua totalità; eliminarlo dall’elenco dei popoli della terra. Allora le parole del Salmo: “Siamo messi a morte, stimati come pecore da macello” si verificarono in modo terribile. In fondo, quei criminali violenti, con l’annientamento di questo popolo, intendevano uccidere quel Dio che chiamò Abramo, che parlando sul Sinai stabilì i criteri orientativi dell’umanità che restano validi in eterno. Se questo popolo, semplicemente con la sua esistenza, costituisce una testimonianza di quel Dio che ha parlato all’uomo e lo prende in carico, allora quel Dio doveva finalmente essere morto e il dominio appartenere soltanto all’uomo – a loro stessi che si ritenevano i forti che avevano saputo impadronirsi del mondo.

Nel buio di Auschwitz, però,  brillò  la luce di san Massimiliano Kolbe, che si offrì volontariamente per sostituire un padre di famiglia, scelto a caso per  rappresaglia in seguito ad un’evasione. All’ufficiale nazista che, sorpreso da quel gesto inatteso, gli chiese chi fosse, rispose semplicemente: “sono un sacerdote cattolico”. E poi nel bunker in cui fu rinchiuso in attesa della morte confortava i suoi compagni, prima di essere finito da una iniezione di acido fenico. La luce che scaturisce dall’atto di amore di Massimiliano Kolbe, sullo sfondo cupo del campo di concentramento, è la stessa luce – a ben vedere – che promana dal Crocifisso. Non a caso le ultime pagine del libro “Auschwiz, crocevia della storia”, ci fanno pensare proprio al grido di Gesù sulla croce. Egli, infatti, ha condiviso fino in fondo la sorte di tutti i crocifissi della terra, incluso il senso di abbandono da parte di Dio. Ha bevuto fino alla feccia il calice della sofferenza umana. L’ha sentita nella sua carne straziata e nella sua anima desolata. L’antica domanda sul “silenzio di Dio” ci conduce immancabilmente davanti al Crocifisso. Solo da lì può venire la difficile risposta. Proprio nelle ultime pagine il preside Vitale riporta l’episodio raccontato da Elie Wisel sull’impiccagione di tre prigionieri, tra cui un bambino, nel campo di concentramento. La morte del piccolo, essendo di peso più lieve, non fu immediata: “E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non erano ancora spenti. Dietro di me sentii il solito uomo domandare: Dov’è dunque Dio? E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca…”.

Fabio Ciollaro
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Foto in alto: un momento della presentazione del volume “Auschwiz, crocevia della storia”, tenutasi lo scorso 24 settembre, a Brindisi, presso Palazzo Nervegna; al tavolo dei relatori (da sin.) il docente di religione Giancarlo Canuto, monsignor Fabio Ciollaro, l’autore Antonio Nicola Vitale e la professoressa Teresa Nacci, della “Società Dante Alighieri”. Sotto: la copertina del libro.