“Ricordi e racconti. Alla ricerca del paese perduto”, di Ciccio Innocente, Ninì Urbano e Antonio Scandone: spunti di riflessioni di attualità culturale e sociale.
Non è inusuale imbattersi in pubblicazioni (talvolta anche di un certo valore) nate fuori dai consueti canali di distribuzione culturale. Siamo tutti concordi nel condannare un certo consumismo che ha contribuito e contribuisce a consumare le anime prima dei risparmi, alterando e modificando le sane relazioni umane. Constatare che attualmente anche i sentimenti “si consumano” è terribile, come è altrettanto terribile prendere atto che molto spesso non c’è (non soltanto nell’ambito delle regole di mercato) un corretto rapporto tra contenuto e contenitore, eludendo antichi proverbi che nella tradizione amavano suggerire collaudate pratiche di vita, come «una buona osteria non ha bisogno di insegne».
Attualmente anche le parole sono svuotate del loro significato ed usiamo, per esempio, la parola amico per indicare anche un semplice occasionale conoscente, dimenticando, come chiariva Cicerone nel suo notissimo scritto, che l’amicizia è una cosa molto seria; è più importante della parentela, giacché la sua esistenza è subordinata all’affetto; senza affetto non c’è amicizia, al contrario della parentela che, anche senza affetto, rimane. Proprio in questo gioco “contenuto-contenitore” si collocano anche le esperienze che rientrano nella cosiddetta “cultura”, laddove di culturale talvolta hanno soltanto il termine. Anzi, molto spesso per avere assicurazioni sul prodotto culturale ci si affida alle tradizionali istituzioni preposte a garantire il valore scientifico. Ed è giusto che così fosse. È, tuttavia, altrettanto giusto osservare che non sempre è così.
Sia detto senza mezzi termini: non tutto ciò che è prodotto e pubblicato con l’imprimatur delle istituzioni culturali è valido e soprattutto rispetta i criteri di una seria metodologia della ricerca. Se questo è quasi prevedibile per chi non fa parte di quel mondo, è impensabile per chi quel mondo dovrebbe edificare nel serio costante lavoro di ricerca e di studio. Per cui può accadere che un lavoro di ricerca trovi la sua garanzia soltanto nell’etichetta. All’opposto, spesso proprio per l’etichetta, ritenuta con pregiudizio non attendibile, alcuni lavori, seri e validi, siano scartati o non considerati, salvo quando non siano palesemente presi in esame e fatti propri senza citare l’autore e la fonte, in un attacco di contrabbando culturale. Ciò accade anche nel Salento contemporaneo, quando salta il rapporto tra contenuto e contenitore. Infatti, capita sempre più spesso che, “fuori dal coro”, personalità di studiosi definiti per convenienza (o per disprezzo?) studiosi “fai da te” o “studiosi locali” o nel migliore dei casi “dilettanti”, ebbene succede che queste personalità non soltanto dimostrino di possedere indiscusse qualità, ma di avere anche l’anima vincente propria di ogni ricerca: l’umiltà. Del resto, la storia è fatta da tutti, grandi e piccoli, senza distinzione: da Napoleone e dall’ultimo soldato del suo esercito, come ha cercato di spiegare Manzoni.
Così, nel processo culturale di una comunità, tutti indistintamente sono chiamati in causa, nel bene e nel male, grandi e piccoli. Sta poi ad ognuno spendere nel miglior modo possibile i suoi talenti, secondo la nota parabola evangelica. Non posso, a questo punto, non ricordare una delle tante lezioni-consiglio del mio maestro, Michele D’Elia, il quale suggeriva di non andare dietro ad architetti ed ingegneri, perché, se per la ricerca ci avrebbero dato sicuramente informazioni valide, in prima istanza non ci sarebbero servite a nulla. Di questo mi sono convinto soprattutto con il passare degli anni. Occorreva, infatti, andare a contattare, in primo luogo, il capomastro di un cantiere, perché lui ci avrebbe dato utili informazioni su come si comportava una determinata pietra, perché lui ci avrebbe indicato una cava invece di un’altra, perché lui ci avrebbe rassicurato sulla tenuta nel tempo del materiale scelto.
È su queste riflessioni che si colloca una pubblicazione, realizzata a più mani, datata ma pur sempre attuale (fu presentata da scrive queste righe insieme all’amico Gino Chirizzi nella chiesa madre di Salice Salentino, lunedì 4 gennaio 2010). Il titolo del lavoro è: Ricordi e racconti. Alla ricerca del paese perduto, di Ciccio Innocente, Ninì Urbano, Antonio Scandone, Edizioni Pibligrafic, Trepuzzi, 2009, pp. 120.
Innocente, in premessa, si chiede se «è possibile avere a Salice un luogo» dove si possa «custodire la memoria del passato» (p. 6). La memoria ha bisogno di uno spazio, ma ha bisogno di essere conservata.
Poco tempo prima della stampa del volume, era stato inaugurato proprio a Salice il Museo del vino «Piero e Salvatore De Castris», finalizzato a salvaguardare e a far conoscere le tappe fondamentali della storia della cantina del vino in Puglia. L’istituzione nasceva sulla scia di altre realtà salentine simili; penso, ad esempio, al Museo Enologico «Ercole Giorgiani» a S. Pietro Vernotico (Brindisi), presso le Cantine S. Barbara.
Queste esperienze sono classificate nell’ambito dei cosiddetti musei aziendali, sorti numerosi a livello nazionale, anche nel campo alimentare ed enologico, come, per citarne qualcuno, il Museo dell’olivo dei Fratelli Carli ad Imperia o tutti quei musei legati ad uno specifico distretto produttivo, come ad esempio il Museo dello scarpone e della calzatura sportiva di Montebelluna (Treviso) o il Museo dell’occhiale a Pieve di Cadore (Belluno) ed in Puglia il Museo del confetto «Mucci Giovanni», allestito ad Andria nella storica sede (1894) della confetteria. Noti musei aziendali, come il Museo di Piaggio di Pontedera (Pisa) e forse il più famoso Museo dell’automobile di Torino, hanno una forte impronta identitaria ed un coinvolgimento comunitario. Il valore aggiunto è offerto dalla tradizione storica che coincide con la memoria collettiva.
In quest’ottica, il museo appare come una sintesi della storia di una comunità. La sua istituzione, comunque, non è finalizzata soltanto alla conservazione ed alla divulgazione delle tecnologie e del patrimonio industriale del passato, ma è anche in grado di assolvere alla funzione di ricerca; è in un certo senso un dispositivo culturale dove si discute e si riflette sulla questione del rapporto tecnica-società, cercando di confrontarsi con le dinamiche storico-temporali delle nostre società post-moderne.
Perciò, Ciccio Innocente si chiede (e gira la domanda al lettore in cerca di una risposta) se è possibile a Salice avere «un luogo che faccia riflettere chi eravamo, come vivevamo, come relazionavamo tra di noi, anche attraverso gli oggetti, gli utensili e gli attrezzi da lavoro che usavamo» (p. 6), un luogo dove ciascuno possa «ritrovare se stesso, le sue radici, ma soprattutto considerare quanto sia costato ai nostri genitori permettere la nostra esistenza. Un luogo in cui gli utensili e gli attrezzi quasi ci parlano per raccontarci storie vissute di lavoro, di sacrifici, di gioie e di dolori» (ibidem). Secondo una diffusa metafora, il «luogo della memoria» è il museo, come gli archivi metaforicamente sono le «miniere della storia»; su queste letture c’è una vasta letteratura di settore.
Il testo Ricordi e racconti, che mi piace segnalare in particolare ai giovani, parte dalla memoria individuale degli autori e si allarga sino a diventare patrimonio della memoria collettiva, assumendo il ruolo di strumento per conoscere la propria identità di appartenenza e per riconoscere il proprio mondo sociale con le sue leggi.
I tagli di lettura, comunque, sono diversi e diversificati: da quello antropologico e psicologico a quello religioso, da quello letterario a quello storico-artistico, da quello diaristico a quello sociale. Già nel titolo gli autori, che hanno scelto di firmare con il nome con cui sono conosciuti familiarmente, propongono un sottotitolo che è una parafrasi dell’opera proustiana per assecondare la legge del recupero memoriale.
Le sollecitazioni che provengono dagli scritti (derivati per lo più da documenti di archivio) di Ciccio Innocente sono tante: dalla ragazza che per fame, incautamente, mangia una ricotta preparata con un forte veleno per le volpi e muore terribilmente (pp. 33-34) alle clausole matrimoniali concordate da due madri, le quali, poiché ambedue vedove, firmano personalmente il contratto di matrimonio, assolvendo al duplice compito dell’istituto del matrimonium (preposto al ruolo della mater di rendere legittimi i figli nati dall’unione) e del patrimonium (preposto al ruolo del pater di provvedere al sostentamento) (pp. 39-41). Negli scritti di Innocente non mancano, inoltre, gli aspetti esistenziali, quali la disperata terribile domanda, carica di inquietudine, del figlio che chiede al padre perché sta morendo (pp. 42-44) e aspetti storico-artistici come la descrizione ”a memoria” della decorazione della volta della Mater ecclesia di Salice, affrescata da Servo di Dio Ingrosso (pp. 52-54), il pittore di Campi, a cui è legato il ritratto del Santo scolopio P. Pompilio Maria Pirrotti.
Seguono i suggestivi bozzetti di Ninì Urbano, tra i quali emerge la solitudine di Dindò (pp. 55-60), amara perché carica di violenta emarginazione e non vissuta come scelta di vita, come fa riferimento un’epigrafe cinquecentesca incisa sulla porta d’ingresso di una casa salentina, quasi un monito, «solitudo mea Paradisus».
Altro bozzetto per la sua freschezza e per il suo profondo contenuto è quello della figura senza tempo di Fra Giovanni (pp. 61-64), frate cercatore, che prima di ricevere qualcosa di materiale distribuiva «pace e bene», come fra Galdino di manzoniana memoria.
Chiudono il lavoro i racconti e le spigolature storiche di Antonio Scandone, il quale, scavando attentamente e portando alla luce i «reperti odonomastici», offre non pochi e diversi spunti di riflessione e di ricerca, restituendo nella contemporaneità le vie di Salice nell’Ottocento (pp. 87-119), un passato senza il quale non è possibile costruire l’edificio del ricordo.
È, dunque, un testo che si muove sulla partitura del filo della memoria, in cui la nostalgia talvolta fa capolino, quel «ritorno doloroso» verso un mondo che non c’è più, ma che può sempre garantire il futuro, se conosciuto ed apprezzato; quel mondo della “condivisione” dei sentimenti di gioia e di dolore (si pensi alle dinamiche di una nascita o di un matrimonio o di un funerale), in cui i sentimenti bisognava manifestarli in prima battuta con il silenzio; poi con gli sguardi ed i gesti; ed infine con le parole, in un mondo in cui i vicini erano come le tegole di un tetto: una dava l’acqua all’altra e tutte coprivano e proteggevano la casa.
Oggi la memoria, anche come termine, è relegata ed affidata al computer e non sono rari i casi di “panico epistemologico”, derivato da una incertezza e debolezza di fronte ai cambiamenti e all’incapacità di governarli quando ci si affida alla precisione e all’infallibilità di una macchina.
L’uomo senza la memoria non è nessuno. Senza la memoria gli esseri viventi non sarebbero in grado di riconoscersi né di dire chi sono.
L’identità degli individui è da sempre legata al proprio passato o, meglio, alla maniera con cui le vicende vissute sono rimesse in gioco nel presente in vista del conseguimento di traguardi disposti nel futuro, anche se non immediato. Perciò, occorre «formare» un luogo dove acquistare consapevolezza della propria esistenza.
Penso, allora, che il messaggio del lavoro di Innocente, Scandone e Urbano sia quello di creare innanzitutto un «museo dentro di noi», dove rafforzare la custodia del proprio passato, un luogo che ci faccia capire il presente, dove nel quotidiano contatto con le nuove generazioni ci dia la possibilità di trasmetterlo e la forza di programmare insieme il futuro. È quello che ci aiuterà ad eliminare il superfluo dalla nostra vita, come faceva Michelangelo con i suoi marmi amorfi, e non confondendo i desideri con i bisogni, ci permetterà di recuperare l’essenzialità di quei beni necessari che rendono godibile l’esistenza, giacché i beni non indispensabili privano la vita della bellezza della semplicità.
Paolo Agostino Vetrugno
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Nella foto in alto: Salice Salentino, Chiesa Madre “Santa Maria Assunta”