Intervento dello storico dell’arte Paolo Agostino Vetrugno
L’iconografia di Sant’Irene a Lecce è un argomento che mi tocca da vicino non solo per i miei interessi storico-artistici, ma anche e soprattutto per una serie di risvolti che il tema può avere stimolando inevitabili riflessioni. Mi riferisco, innanzitutto, alla mia proposta avanzata al recente convegno di studi organizzato per il giubileo di Sant’Oronzo di istituire a Lecce un centro studi oronziani, che inevitabilmente deve prendere in considerazione anche la Protettrice Sant’Irene. Infatti, non si può parlare di Sant’Irene a Lecce senza accennare anche al protomartire Sant’Oronzo, introdotto da monsignor Luigi Pappacoda; e viceversa: parlare di Sant’Oronzo necessita anche trattare il tema Sant’Irene.
Lo stesso titolo di questo mio intervento potrebbe sembrare, se non provocatorio, almeno ammantato di una nota di letteratura di maniera. Ma non è così. Sant’Irene da Protettrice primaria di Lecce è diventata Comprotettrice, ma nemmeno questo nuovo ruolo è stato rispettato. Se così fosse, poiché a Lecce non ci sono celebrazioni particolari per Sant’Irene, nella processione organizzata in occasione della festa di Sant’Oronzo, potrebbe ben esserci anche una statua di Sant’Irene, per esempio. Ma basterebbe riflettere che nel lavoro di inventariazione sulle raffigurazioni sacre in cartapesta conservate nelle chiese di Lecce, realizzato nel 2002 da Giuseppe De Simone, non risulta nessuna statua (sia pure superstite) di cartapesta di Sant’Irene. Lo stesso Museo Diocesano di Lecce, che dovrebbe narrare la storia della Diocesi attraverso i beni ecclesiastici, non offre nessun cenno, al visitatore attento o al turista di passaggio, della presenza a Lecce di Sant’Irene. Nella stessa cattedrale di Lecce non c’è un altare dedicato alla Santa.
Ero, pertanto, indeciso se utilizzare nel titolo di questo intervento un aggettivo vivo e caro alla letteratura greca e ripreso da Pirandello. Mi riferisco al Fragmentum Grenfellianum, uno dei papiri di Ossirinco ritrovato nel 1896 comunemente noto come Lamento dell’esclusa, e al romanzo L’esclusa di Pirandello scritto nel 1893, sebbene abbia altri risvolti letterari. Tuttavia, anche se per me Sant’Irene a Lecce rappresenta la santa protettrice che, nel tempo, è passata dall’essere considerata esclusiva ad essere di fatto esclusa, mi è sembrato più conveniente indicarla come Tutelare oscurata in riferimento anche alla “guerra delle reliquie” tra Teatini e Gesuiti, che in questa sede non tratto rinviando agli studi specifici. Ma andiamo con ordine.
Il 30 maggio 1639, monsignor Luigi Pappacoda, «cavaliere napoletano, gran letterato e dottore dell’una e l’altra legge», all’età di quarantaquattro anni, è assegnato alla sede episcopale vacante di Lecce, ma ne prenderà possesso il 2 dicembre 1639, proveniente dalla diocesi salernitana di Capaccio. La sua notorietà nell’ambito della storia della Chiesa leccese post-tridentina è legata in modo particolare all’introduzione ed alla diffusione del culto di Sant’Oronzo, che parallelamente comportò l’abbandono del plurisecolare patronato di Sant’Irene. Considerato e riconosciuto protomartire e protovescovo della comunità lupiense, Oronzo, infatti, sostituì Irene, il cui altare, innalzato nella nuova chiesa realizzata su progetto di Francesco Grimaldi dell’Ordine dei Teatini, era già terminato il 15 marzo 1639 ed appariva arredato con la tela della santa dipinta da Giuseppe Verrio.
La cerimonia della consacrazione dell’edificio sacro, infatti, avvenne appena pochi giorni dopo e precisamente il 2 aprile 1639, con rito officiato dall’arcivescovo di Brindisi monsignor Francesco Surgente, nativo di Montesardo nel Salento. La scelta del prelato consacrante si deve con ogni probabilità alla sua appartenenza ai chierici regolari Teatini, ma risulta giustificata anche dal fatto che il vescovo di Lecce monsignor Scipione Spina (1591-1639) «uomo santo e timorato di Dio», il 3 marzo, «primo venerdì» del mese, era passato nel regno dei più. Dopo appena due mesi, il Lupiensium pontifex, come era indicato dai contemporanei il Pappacoda e come ancora oggi si legge a chiare lettere anche nell’epigrafe dedicatoria posta sulla facciata principale della cattedrale, introdusse il culto verso il nuovo protettore, nonostante la titolare Sant’Irene fosse ben radicata nella storia della comunità leccese e salentina.
È bene sfatare subito ogni dubbio e condividere in pieno lo studio sul culto di Sant’Irene di Francesco Tarantini il quale sostiene che «l’affermazione che Irene sia nata a Lecce è inattendibile; quasi con certezza si tratta di un errore commesso da qualche copista». Infatti, una delle rappresentazioni più fedeli all’agiografia ireniana è l’affresco nella chiesa del Gesù a Lecce opera di Antonio Verrio (1636ca.-1707), in cui è trattato il tema del martirio della Santa alla presenza delle due sorelle Agàpe e Chiònia, nomi quasi sicuramente assegnati dopo aver ricevuto il battesimo con evidenti riferimenti alla Carità e alla Purezza, oltre alla Pace di Irene.
Sant’Irene, sebbene sia scritto Sancta Erina D(omina) Lic(iensi)s, è raffigurata nel frontespizio del Breviarium Liciense, secondo il Beatillo la prima edizione è stampata in Venezia nel 1526, data confermata dal colophon della copia custodita nell’Archivio Segreto della Curia di Lecce, togliendo ogni dubbio ed ogni elucubrazione sulla data non corretta o poco leggibile del frontespizio.
Breviarium Liciense, Francesco De Ferrariis e Donato Sommerini, Venezia, 1526
«La santa si erge, significativamente, nel cuore della città accanto alla cattedrale, poggia la mano sinistra sul campanile in segno di protezione e regge con la mano destra davanti al petto una lampada accesa come simbolo della fede che arde nel cuore e della luce che illuminò la torre quand’era in vita e rivolge lo sguardo verso i suoi fedeli devoti. Alla sua sinistra un albero di leccio ricorda il simbolo civico dello stemma araldico di Lecce» (G. Giangreco, Sant’Irene in Terra d’Otranto e in Abruzzo, per le Nozze Donatangelo-Giangreco, a cura di Michele Bonfrate, st. in proprio, Scorrano, 2018, pp. 14-15; cfr. questo lavoro per una bibliografia e sitografia aggiornate pp. 56-69).
Breviariun Liciense, colophon
Nel frontespizio della Lecce sacra di Giulio Cesare Infantino del 1634, una incisione di Pompeo Renzo, compaiono San Giusto, Sant’Oronzo e al centro la Protettrice S. Irene.
Pompeo Renzo, S. Irene, incisione, Frontespizio (particolare), in G.C. Infantino, Lecce sacra, Lecce, Pietro Micheli, 1634
Antonio Beatillo da Bari della Compagnia di Gesù, alcuni anni prima, precisamente nel 1609, pubblica l’Historia della vita, morte e miracoli e Traslatione di Santa Irene da Tessalonica Vergine, e Martire (…) Patrona della città di Lecce in terra d’Otranto.
È interessante il sonetto di Vittorio de Priolo dedicato a Sant’Irene, che meriterebbe un’analisi letteraria.
Nella cinquecentesca chiesa leccese dello Spirito Santo, annessa all’omonimo Ospedale costruito da Giovanni Jacopo dell’Acaia, c’è un altare con la mensa arredata da un’immagine di Sant’Irene clipeata, come appare in altri altari, come nella chiesa madre di Vitigliano (frazione di Santa Cesarea Terme in provincia di Lecce). Nella chiesa leccese di Sant’Irene sono ancora custodite le statue reliquiari di Sant’Irene, San Giusto e Sant’Oronzo (ritratto in abiti da legionario romano). Ma l’iconografia di Sant’Irene che maggiormente si attesta nel Seicento è quella dipinta su carta reale da Giuseppe Verrio nel 1639, raffigurata in abiti di una matrona veneta. La ritroviamo in Santa Croce in una copia della stessa tela del Verrio, che arreda l’altare dedicato alla martire, sino alle realizzazioni che sconfinano nelle arti suntuarie, quali ad esempio il trapunto in seta, come quello custodito nel Monastero delle Benedettine di Lecce, forse realizzato da Marianna Elmo, se non proprio dalla sorella Irene. Il pozzetto del cortile dell’antico seminario di Lecce in Piazza Duomo è coronato da una statua di Sant’Irene iconograficamente simile alla tela che il Verrio aveva dipinto per la chiesa di Sant’Irene, come la Sant’Irene dell’altare della Natività della chiesa leccese di San Giovanni Battista.
Non molti giorni prima della nomina a vescovo di Lecce di monsignor Luigi Pappacoda, il 2 aprile 1639 era stata consacrata la nuova chiesa dedicata alla patrona Sant’Irene, sul cui altare, già terminato il 15 marzo 1639, in alto a sinistra campeggia una formella con un bellissimo arcobaleno, che non può essere considerato un simbolo riferibile ai moti antispagnoli del 1647, in cui ebbe un ruolo determinante lo stesso vescovo Pappacoda, facendo slittare, a mio avviso forzatamente, la datazione dell’altare al 1652.
Questa cronologia è sostenuta sulla base di una presunta epigrafe scomparsa, che nel 1874 Luigi De Simone aveva letto, trascritto e pubblicata, (ma è altrettanto nota anche la fedeltà di altre sue trascrizioni). Sarebbe stato sufficiente utilizzare le notizie delle cronache del tempo e considerare l’attribuzione a Francesco Antonio Zimbalo.[1] Ritengo, infatti, corretto dare credito alle cronache scritte da Andrea Panettera (del resto, bisognerebbe dimostrare che la notizia non è vera) e riconoscere che la data 15 marzo 1639 indica il completamento dell’altare, che era stato già innalzato, ma non finito, probabilmente per la morte dello stesso Zimbalo nel 1631. Del resto, i lavori della costruzione della stessa chiesa iniziarono nel 1591 e si conclusero nel 1639 e furono realizzati sul progetto dell’architetto teatino Francesco Grimaldi che muore nel 1613. Perciò, l’arcobaleno, non avendo alcuna possibilità di essere messo in relazione con i fatti del 1647, lo si deve collegare, innanzitutto, con un sostrato devozionale mariano e precisamente con gli antichi inni religiosi in cui Maria è acclamata come arcus pulcher aetheri, sfruttando l’alternanza del fonema tra arcus, ponte tra cielo e terra, e arca, attributo mariano e sappiamo che la città di Lecce è dichiarata civitas mariana per eccellenza.
La visibilità pubblica dell’effigies della santa dopo il suo declassamento, con una parallela operazione quasi di “anestesia religiosa”, è documentata nella facciata laterale della cattedrale di Lecce, il cui impianto iconografico segue uno sviluppo piramidale definito negli angoli di base dalle statue di San Fortunato (a sinistra) e San Giusto (a destra) ed al vertice da Sant’Oronzo. Santa Venera e Sant’Irene sono collocate ai lati di Sant’Oronzo, mentre ai lati estremi della balaustra, come due acroteri, sono collocati lo stemma del Capitolo della cattedrale (a sinistra) e lo stemma della città di Lecce (a destra). La facciata laterale destra della cattedrale è assegnata a Sant’Irene, che appare quasi relegata in un ingresso secondario, anche se funzionalmente in asse con la facciata dedicata a Sant’Oronzo, ed appare come il recto ed il verso della ottocentesca medaglia in argento che è stata riproposta nel medesimo metallo in occasione del recente Giubileo oronziano.
L’impianto iconografico generale della scenografica facciata laterale sinistra della cattedrale appare riprodotto all’interno dell’edificio religioso nell’altare dedicato al Santo protomartire (1671-74), assegnato a Giovanni Andrea Larducci da Salò e a Giuseppe Zimbalo; soltanto da precisare che le sante poste in alto sono Santa Petronilla (a sinistra) e Santa Emiliana (a destra, sorella di Oronzo). Nella cattedrale di Lecce, come già detto, non c’è un altare dedicato a Sant’Irene al pari ad esempio di Santa Croce, pur essendo l’antica patrona e poi compatrona. Tuttavia, in alcuni altari minori compare lateralmente la sua effigies, come accade anche in altre chiese di Lecce, ad esempio nell’altare della Natività della chiesa di San Giovanni Battista. Nella cattedrale troviamo raffigurata Santa Venera e Sant’Irene nell’altare di San Fortunato, opera di Giuseppe Zimbalo, o nell’altare di San Filippo Neri (qualcuno, tuttavia, pensa che sia S. Barbara).
La presenza di Santa Venera o Veneranda con Sant’Irene è chiarita nella vita di Beatillo, il quale sostiene che «l’immagine di S. Venera a cui i Leccesi hanno avuto sempre gran divotione»; e comunque «è stato costume in Lecce da molto tempo pingersi insieme con quella di Santa Irene» (p. 342). Narra la vita di Santa Venera, che è celebrata a Lecce il Venerdì Santo ed il 26 luglio, giorno del suo martirio, e conclude che le due sante sono accomunate sebbene «non furono già mai esse, né cittadine da Lecce, né compagne in altra parte del mondo l’una con l’altra» (p. 358). Il cap. VIII del libro secondo tratta: Per qual caggione l’Imagine di Santa Venera Vergine e Martire si pinga in Lecce con quella di Santa Irene (pp. 336- 358) e dopo un excursus storico conclude che, relativamente a Santa Venera, è dipinta la
Del tutto differente la situazione che si presenta ad Ostuni, in cui ci troviamo di fronte ad un simbolico arredo urbanistico innalzato nel 1771 dall’ostunese Giuseppe Greco sul modello della «colonna» napoletana di Giuseppe Genoino, innalzata nel 1747-8. Si tratta, per la precisione, di una guglia che è collocata, come un grazioso soprammobile, nella piazza principale della città bianca, posta al confine settentrionale della Terra d’Otranto; è un signum che indica al «Pellegrino di Puglia», per usare un’espressione cara a Cesare Brandi, il limite di una frontiera, o meglio l’inizio e la fine di una terra interamente posta sotto la protezione di Oronzo, che appare raffigurato sulla sommità, mentre ai quattro lati del terzo basamento sono collocate le statue dei santi Agostino, Irene, Biagio e Gregorio Armeno, compatroni di Ostuni. Sull’identità di Sant’Irene non ci sono dubbi, perché è chiaramente indicata dall’iscrizione sulla base.
Anche nella piazza di Lecce era stata innalzata da Giuseppe Zimbalo, tra il 1666 ed il 1683, una colonna con la statua di Sant’Oronzo, ma con tutt’altre finalità e con un dispositivo comunicativo oscillante tra monumentum e documentum. Agli angoli dell’alto basamento su cui era stata collocata la colonna con il santo patrono, figuravano quattro santi: Petronilla, Emiliana, Giusto e Fortunato, gli stessi che arredano l’altare di Sant’Oronzo della cattedrale di Lecce. Di Sant’Irene nessuna traccia. Le statue si possono ammirare riprodotte nelle incisioni e nei dipinti dell’Ottocento. Probabilmente furono rimosse intorno al 1885, in attuazione del progetto redatto dall’ingegnere Ferdinando Campasena nel 1869, nonostante il parere contrario di Sigismondo Castromediano, all’epoca ispettore ai Monumenti. Ma questa è un’altra storia.
Un’esposizione pubblica dell’effigies di Sant’Irene è rintracciabile a Lecce su una colonna o pilastro, un tempo angolare ed oggi inglobata nella facciata di un edificio in via Vittorio Emanuele. La medesima matrice epifanica rinvia a Fragagnano (Taranto), a Francavilla Fontana (Brindisi) oppure al sedile di Matera, di cui è compatrona. Sarà una coincidenza, ma Lecce sino al 1658 aveva come patrona Sant’Irene e Matera farà parte della Terra d’Otranto sino al 1663. Matera, uscita dalla giurisdizione della Terra d’Otranto, conserverà la sua santa, Lecce la declasserà, nell’ambito di una politica religiosa post-tridentina volta a cancellare, senza compromettersi direttamente, ogni presenza greca dalla Terra d’Otranto; del resto, passando dal femminile al maschile, Irene è una santa di origine orientale, Oronzo, invece, è un santo di origine occidentale. Lecce conserverà Sant’Irene, a livello pubblico, soltanto sul fastigio di Porta Rudiae, la porta “sacrata” a Sant’Oronzo dal Pappacoda il 25 agosto 1658, dopo il crollo ricostruita nel 1703 dal capomastro Giuseppe Guido aiutato dai figli Angelo e Francesco.
Intanto, la figura olosoma compare anche attraverso le incisioni con una Sant’Irene raffigurata nell’atto di placare i fulmini in una posa plastica che sembra più un funambulo che cerca l’equilibrio in uno stato precario. In questa versione la incontriamo riprodotta da Serafino Elmo, in pieno Settecento, nella chiesa del Carmine a Lecce, oppure nel Museo diocesano di Altamura, per uscire fuori provincia, nei dipinti in seta, in un’edicola devozionale a Taranto vecchia (via Garibaldi, n. 81), in diversi dipinti votivi, che nell’immaginario collettivo rinviano alla posa dell’Assunta, titolare della cattedrale di Lecce. Come dire: c’è già iconograficamente una donna, o meglio una madonna, da venerare, perciò ben venga Sant’Oronzo come protettore e con una veste iconografica nuova: un santo vescovo esempio per un vescovo santo. E quasi per richiamare proprio Sant’Oronzo, anche Sant’Irene è raffigurata in immagini che rasentano il macabro, come la Testa di S. Irene dipinta da Giovanni Grassi nel 1863, sulla scia della riproduzione in cartapesta della Testa di S. Oronzo.
La devozione per Sant’Irene, però, a Lecce non ha conservato nessuna statua processionale, come, per fare un esempio, accade ad Altamura (Bari), di cui è protettrice. Anzi, a Lecce, Sant’Irene sarà oggetto di un culto sempre più privato, riservato, intimo, come attestano la diffusione di medaglie, di immaginette devozionali o la presenza di qualche formella in ceramica che potrebbe essere ricondotta alla santa di Tessalonica.
E ritornando da dove siamo partiti, ad una lettura più immediata dell’arcobaleno dell’altare di S. Irene, nella leccese chiesa dedicata alla Santa di Tessalonica, ci si accorge che è e rimane il simbolo della Pace, cioè di Irene, di colei che garantisce l’alleanza tra Dio e gli uomini, come indica la stessa iscrizione “Signum faederis inter se et deum”. È, infatti, l’arcobaleno che promette l’avvicendarsi delle stagioni, del giorno e della notte e garantisce la semina e il raccolto in una terra dove, come dopo il diluvio, tornerà a splendere il sole, quel sole radioso che spunta prepotentemente dalle nuvole con cui appunto conclude la sua traiettoria l’arcobaleno di Sant’Irene. Ed è forse solo una coincidenza che il Seicento si apra con La città del Sole di Tommaso Campanella (redatta nel 1602 e pubblicata nel 1623 ), che il 25 agosto, giorno della festa di Sant’Oronzo, la Chiesa celebri anche la festa di San Ludovico da Tolosa, oltre che di San Luigi IX, in ogni caso l’onomastico del vescovo Pappacoda, riconosciuto dai contemporanei come «gran Luigi», in un’età in cui un altro Luigi, figlio del suo tempo, era soprannominato «Re Sole» ed in cui la simbologia cristiana, attingendo ai simboli archetipi, riprendeva proprio l’immagine del sole, sino a proporre Cristo come «nuovo Sole», sintetizzato in tutti gli ostensori, che, con i numerosi raggi, rappresentano il principio ordinatore del cosmo e l’emblema dell’immortalità e della resurrezione.
Oggi più che mai abbiamo bisogno di metterci in cammino e ripercorrere questo arcobaleno per ritrovare la Pace, ma per anche recuperare Irene, la tutelare oscurata, magari con una coraggiosa azione collettiva alla ricerca della propria identità di appartenenza. È questo, in fondo, il senso di questo breve intervento che potrebbe essere l’inizio di un percorso verso questa direzione.
Paolo Agostino Vetrugno
© Riproduzione riservata
Foto in alto: Giovanni Grassi, Testa di S. Irene V. e M., 1863
[1] M. Fagiolo-V. Cazzato, Le città nella storia d’Italia. Lecce, Editori Laterza, Bari, 1984, pp. 48-9.