Si è svolta sabato scorso, 7 settembre 2024, nella chiesa parrocchiale “San Giuseppe”, la concelebrazione eucaristica presieduta dall’arcivescovo Giovanni Intini. Il saluto integrale di don Carmine, da lui letto alla conclusione dell’evento religioso
Sabato scorso, 7 settembre 2024, nella gremitissima chiesa parrocchiale “San Giuseppe”, a Salice Salentino, si è svolta la concelebrazione eucaristica in occasione del 50° anniversario di ordinazione sacerdotale di don Carmine Canoci. Al solenne evento, presieduto da monsignor Giovanni Intini (arcivescovo di Brindisi – Ostuni), hanno partecipato numerosi sacerdoti e diaconi, non solo salicesi.
Fra i presenti, anche il sindaco Mimino Leuzzi, diversi rappresentanti della Giunta e del Consiglio comunale di Salice e tantissimi fedeli delle due parrocchie locali, entrambe in passato guidate da don Carmine (chiesa “San Giuseppe” e chiesa madre “Santa Maria Assunta”), e di altre comunità parrocchiali dove ha esercitato e continua ad esercitare il suo ministero.
Alla conclusione della cerimonia religiosa, molto intensa e ricca di momenti particolarmente coinvolgenti (anche grazie ai bravi componenti del coro diretto dal maestro Giuseppe Fantastico), il sindaco Leuzzi, dopo un breve saluto, a nome di tutta la comunità locale, ha consegnato al festeggiato una pergamena ricordo e un dono (una penna Monblanc).
Particolarmente seguito e apprezzato è stato il saluto di don Carmine, letto al termine della concelebrazione eucaristica. Di seguito il testo integrale dell’intervento di don Carmine. (red.)
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Saluto di don Carmine Canoci a conclusione della celebrazione del suo Giubileo sacerdotale
Sono qui con voi a rimirare, quasi come davanti al monitor di un computer, quello che è stato dei miei 75 anni e in modo più dettagliato degli ultimi 50. Come rendere grazie al Signore mio e nostro Dio? OffrendoGli, con somma gioia, ciò che ho appreso e vissuto in questi primi cinquanta anni del mio sacerdozio elevando a Lui la mia lode.
Sì, sono solo i primi 50 anni e non fate spallucce! Non è infatti vero che sono sacerdote in eterno?… A ciò aggiungo il giusto orgoglio di essere immune dalla senilità, forte di quell’“introibo ad altare Dei, ad Deum qui laetificat iuventutem meam”. Salirò all’altare di Dio, a Dio che allieta la mia giovinezza. (Se volete mettere dei colori sapete quali sono i più adatti…).
Dice l’Autore sacro: «Offrirò sacrifici al Signore con canti di lode, adempirò i voti che ho fatto. Da lui viene la mia salvezza» (Giona 2,10). Sono queste parole che, per me, riassumono sentimenti di riconoscenza e gratitudine per i moltissimi e nascosti doni ricevuti da Dio, e allo stesso tempo, mi aiutano a fare sintesi del tempo vissuto all’ombra dello Spirito Santo, così come promesso e attuato in Maria nel giorno santo dell’Annunciazione
In questo tempo così degradato, secolarizzato e in parte anche ateizzato, in cui si rivendicano e si inventano sempre più diritti, spesso a senso unico, ignorando i doveri e seppellendo i valori, il prete, voce stonata, non è considerato un gran che. Niente di strano! S. Paolo si autodefiniva quasi un «aborto» di apostolo.
Nel corso di questi 50 anni, in vari momenti e occasioni, ho sperimentato che nella Chiesa, nella parrocchia, fra la gente dove il sacerdote vive, egli non è il padrone, ma è solo e soltanto «uno che serve», alla maniera dello zerbino che è alla porta di casa. Riconoscersi in un ruolo diverso significherebbe mettere a tacere la responsabilità dei laici, bloccare le articolazioni di tutto il corpo ecclesiale e trasformare ancora una volta in pecorume ciò che dovrebbe essere ed è il «popolo eletto».
Il prete è solo un liturgo, un evangelizzatore, un animatore e suscitatore di buona volontà, colui che fa sprigionare e mette allo scoperto il carisma, le doti di ogni credente in Cristo. In questi anni, ho appreso ancor di più che il prete è mandato a costruire la Chiesa. Il suo essere segno di unità lo porta spesso a non essere capito, ad essere rifiutato: è una delle tante strade del suo calvario. C’è chi vuol correre e c’è chi non può farlo. La fatica di tenere tutti insieme è logorante. Senza contare che arriva il momento in cui si deve fermare e fare da ambulanza, per raccogliere chi non ce la fa più, disponendosi, in queste circostanze, a sorbirsi i mormorii di coloro che stanno in prima fila o, addirittura, proprio fuori dal coro, e che certe sfumature non le colgono o le travisano.
Il sacerdote è fatto per accogliere tutti. Una cosa sola può e deve condannare: il peccato. Ma è tenuto sempre a capire e a perdonare il peccatore, lasciando a Dio il mestiere di giudice, dal momento che lo sa fare meglio di lui. È chiamato ad essere chi tutto sa e deve tacere, perché il delicato filo della carità che tutti e tutto unisce non si spezzi. Spesso non può nemmeno difendersi quando, e succede spesso, è accusato ingiustamente, perché difendersi in alcuni casi potrebbe voler dire ferire, umiliare, condannare, perdere qualcuno. Cristo, del resto, non si è mai difeso: ha solo chiesto un paio di volte il motivo della condanna, niente di più.
Puoi essere anche crocifisso e ti conviene non ribellarti, anche se ciò è davvero poco piacevole. Non devi mai accettare che venga calpestata, lacerata, crocifissa la tua gente, quella per la quale servi, in qualità di prete. Essa è il tuo amore e come tale devi difenderla, a qualsiasi costo, altrimenti diverresti un ‘mercenario’. E non c’è proprio da augurarselo!
Ma anche il sacerdote vive periodi o momenti in cui calde lacrime solcano il suo volto e, ancor di più, il suo spirito. Succede quando, constatando la propria fragilità, nel segreto della stanza, prende atto di alcune scelte sbagliate o azzardate, prese nei confronti di comunità o di singoli, nel campo del ministero che svolge o della dignità di cui è rivestito. Sì, è vero, non c’è niente per cui nascondersi o vergognarsi: ci sono momenti in cui le lacrime servono, eccome! Tanti asceti hanno pregato per ottenere il dono delle lacrime.
Vabbè, ma constatare di aver faticato, seminato con abbondanza, senza discriminare le persone e poi… vedere soltanto il deserto, la sabbia, neppure un germoglio, è veramente lacerante per il cuore e per la mente. Ti crolla addosso il mondo intero, o meglio … la Chiesa intera.
Poi, asciugate, se pur con fatica le lacrime, in quei momenti, serve, è servito attivare la voce del verbo intuire accompagnato da un carico enorme di fiducia. È un consiglio che un vecchio maestro spirituale, a suo tempo, ebbe a suggerire a noi suoi discenti.
Infatti, in certe circostanze specie quelle più demoralizzanti, è importante:
– Intuire che qualcosa si muove sempre, lungo percorsi sotterranei e niente di ciò che si fa con amore va perduto.
– Intuire che il Signore è presente “in incognito” e ritrovarsi a mani vuote è segno di pienezza, non di povertà. Tutto è grazia, anche l’apparente fallimento; la Parola non è mai sprecata: almeno un cuore in attesa lo incontra sempre.
– Intuire che, quando c’è la croce e l’incomprensione, si è sulla strada giusta. Con il Signore vinci quando ti lasci sconfiggere e, quando ti giudichi “un disastro”, dai al Signore la possibilità di operare grandi cose. “Quando sono debole, è allora che sono forte” dice san Paolo.
– Intuire che il cuore, non la mente, è lo strumento essenziale di conoscenza. Proprio quando ti sembra che tutto vada a rotoli, in realtà si sta costruendo qualcosa di valido e durevole.
– E infine intuire che quando predichi, quando assolvi, hai le spalle coperte da chi prega per te.
Ecco, penso di aver ricevuto abbastanza in questi 50 anni, credo di aver accumulato una buona esperienza che mi permette di redigere un consuntivo più fiducioso, in vista della futura scadenza dei secondi 50 anni, quando, credo e spero che, in compagnia di molti di voi, nella lode, ribadirò ancora e sempre il mio atto di amore a Dio.
A meno che non debba essere costretto a fare, invece, il resoconto dei primi 50 anni di purgatorio…
Come vedete, ho imparato tante cose, tutte di prima mano, non per sentito dire. È un grande dono di Dio essere chiamato ad apprendere e, come chicco di grano, seminare ciò che si è appreso nel solco dell’esperienza umana e quindi allo stesso tempo amara e gioiosa del sacerdozio.
Grazie a tutti voi, sorelle, fratelli e confratelli, testimoni e compagni di viaggio nel mio cammino sacerdotale. Il tempo e la poca fiducia nella mia memoria mi consigliano di non fare nomi: desidero non lasciare nemmeno un briciolo di amarezza in chi potrebbe non essere menzionato.
Alcune giuste eccezioni, però, me le permetterete.
Pensiero grato sento di rivolgere a Sua Ecc.za Mons. Settimio Todisco, provvidenziale ministro della mia ordinazione sacerdotale. Era ancora vescovo di Molfetta, ma la sua presidenza, in quella occasione, segnò l’anticipo di ciò che sarebbe avvenuto l’anno successivo e cioè il suo insediamento, per volontà del Papa Paolo VI, alla guida della nostra diocesi. Si compia in lui e per lui la volontà di Dio.
Un commosso ricordo di don Damiano Innocente, compagno di ordinazione. La sua partecipazione alla Liturgia celeste sia di aiuto e sostegno a me e a tutti noi.
Un caro saluto e augurio ancora a don Giuseppe Dello Tore, protagonista con don Damiano e me di quel sacerdotale e solenne 7 settembre 1974.
Un grazie al nostro pastore vescovo Giovanni che ha presieduto questa nostra celebrazione e l’ha arricchita della sua illuminata e illuminante parola; ai parroci di Salice don Massimo, don Salvatore e fra’ Emanuele, Rettore della rettoria del Convento; con la loro collaborazione e partecipazione a questo evento, hanno ribadito l’identità comunitaria della Chiesa presente in Salice. Doveroso e amichevole ringraziamento vada al sindaco Cosimo Leuzzi e all’intera Amministrazione comunale.
Grazie a tutti i confratelli per la loro vicinanza espressa tramite telefono e mezzi social, perché impossibilitati a partecipare, ma due nomi desidero proprio farli: i carissimi don Angelo Ciccarese e don Alberto Diviggiano.
Grazie a voi presenti e alle comunità che rappresentate, in modo particolare, oltre a quelle della Chiesa Madre e di San Giuseppe in Salice, anche della parrocchia San Nicola in Brindisi che mi ha visto muovere i primi passi di novello sacerdote, dei Santi Francesco d’Assisi e Pancrazio e di San Giuseppe, entrambe in San Pancrazio e a tutte le comunità parrocchiali della vicaria che continuo a servire.
Un grazie a tanti ammalati impediti, o comunque a tutti i bisognosi che ho incontrato nell’esercizio del mio ministero: il mistero di grazia presente in loro mi ha tante volte edificato.
A tutte le persone che ho accostato rivolgo una richiesta di perdono se non ho saputo intercettare adeguatamente il loro sguardo e mi sono comportato ignorando e disattendendo le loro aspettative.
E infine, non per ordine di importanza, ma per accreditare loro grata e giusta risonanza, un tenero ma profondo abbraccio, con il ciglio umido di commozione, a mio padre Rosario, a mia madre Maria, ai miei fratelli Primo, Carmine (anche se non l’ho conosciuto), Tonino, a mia sorella Aurora (tutti scomparsi nel corso degli anni, ndr.) e a Clara. A loro, da parte mia, onore e gloria. Amen!
Con un filo di voce, per far parlare il cuore, concludo con la preghiera-testamento che mi accompagna da tempo e che più volte, fiducioso, ho consegnato al Sommo ed Eterno Sacerdote:
O Signore, un giorno, abbastanza lontano e allo stesso tempo vicino,
cominciasti a mandarmi dei segnali: erano originali dichiarazioni d’amore.
E così fui tuo per sempre, prete nella tua Chiesa.
Con te ho assaporato gioie ed ho salito calvari.
Ho contemplato meravigliose innocenze
ed ho raccolto le miserie del peccato con le mie mani di ‘riconciliatore’.
Ho seminato nei deserti il fiore della speranza
e ho sparso la dolcezza della tua misericordia.
Ho annunciato la tua parola, a me consegnata,
anche se non sempre è stata ascoltata.
Ho speso il grappolo d’anni che finora mi hai dato
impegnandomi a restare fedele alla tua chiamata.
Giunto a questo punto, liberami dalla stupida vanità
di misurare i passi compiuti o di vedere se è nato qualcosa.
Preferisco invece guardare in avanti, come il primo giorno,
sapendo che c’è sempre, dietro l’angolo, qualcuno o qualcosa che aspetta me,
per offrire o raccogliere una briciola del tuo sconfinato amore.
Se qualcosa, infatti, desidero, o Signore, che resti nella memoria della gente
non è né il mio nome, né la mia storia,
ma quel pezzo di cielo che ho tentato di mostrare,
giacché è l’unica bellezza che questa gente, la mia gente, merita di possedere.
Aiutami, o Signore, Dio della mia giovinezza
e della mia adulta età, a camminare ancora,
fin dove vorrai, carico di fede e di speranza
nella serena certezza che ad aspettarmi ci sei Tu
con la fronte illuminata dal sorriso,
pronto ad accogliere non solo me, le mie fatiche, ma anche tutta la mia gente
nelle infinite praterie del cielo. Amen.
A Dio Padre, a Gesù Cristo suo figlio e mio fratello, allo Spirito Santo, alla Vergine Madre Maria della cui protezione più volte credo di aver beneficiato, a tutto il popolo di Dio da me incontrato nel corso di questi 50 anni, il mio perenne rendimento di grazie.
Don Carmine Canoci
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Foto in alto: don Carmine legge il saluto conclusivo
Biglietto in occasione dell’ordinazione sacerdotale (7-9-1974)
Biglietto in occasione del 50° di sacerdozio (7-9-2024)