di Fabio Ciollaro*
Su questo “Spazio Aperto” recentemente è stato richiamato in modo molto efficace il magistero di don Tonino Bello sull’arte nobile e difficile della politica intesa come servizio al bene comune. Principi sacrosanti, ma che rischiano di apparire quasi utopici se non segnaliamo in parallelo qualche figura che ha cercato di ispirarsi a tali principi e si è sforzato di attuarli nella propria vita. Per questo, agganciandomi al precedente articolo su “Spazio Aperto Salento” vorrei richiamare l’esperienza concreta di un politico pugliese, assurto a responsabilità nazionali e poi uscito traumaticamente di scena, proprio mentre si profilava la sua motivata candidatura alla presidenza della Repubblica, nella successione a Giovanni Leone. Sto parlando, evidentemente, di Aldo Moro.
1. Gli anni della formazione
Gli ideali di Moro si erano radicati in lui nella formazione cristiana ricevuta e fatta sua in modo consapevole e convinto, specialmente negli anni del liceo e dell’università. Originario di Maglie, per trasferimento familiare visse il periodo liceale a Taranto, frequentando il liceo classico “Archita”. Si impegnò molto in quella scuola assai esigente, ma nello stesso tempo si impegnò nell’Azione Cattolica della parrocchia di S. Pasquale, condividendo con altri giovani la gioia della vita di gruppo e la serietà di una formazione cristiana capace di portare frutti nel mondo. Poi passò a Bari per l’università, nella facoltà di Giurisprudenza. Si applicò allo studio con passione, superando brillantemente gli esami. Tuttavia non fece dello studio un idolo a cui sacrificare tutto il resto, come se nella sua vita esistesse solo quello. Convinto che con la crescita intellettuale deve accompagnarsi anche la crescita spirituale, egli cercò un modo per coltivare adeguatamente la sua fede di giovane universitario e lo trovò nella FUCI, la Federazione universitaria dei cattolici italiani. Anni felici: confronto con gli altri, incontri, iniziative, sana goliardia, riflessione impegnata sui fondamenti del cristianesimo e sulla dottrina sociale della Chiesa, ritiri spirituali, passeggiate con gli amici un po’ scherzando, un po’ ragionando, convegni nazionali, dove si facevano nuove conoscenze e si allargavano gli orizzonti, e dove all’organizzazione un po’ spartana corrispondeva un’alta qualità di contenuti e di dibattiti. In quei convegni nazionali Moro venne conosciuto, fu notato, e così si ritrovò giovanissimo a diventare presidente nazionale della FUCI, entrando in relazione personale anche con monsignor Montini, il futuro Paolo VI. Cominciò allora quel rapporto speciale fra Montini e Moro che divenne vera e propria amicizia.
2. Vita familiare e professionale di Moro
Nei convegni nazionali della FUCI, Moro conobbe Eleonora Chiavarelli, Noretta, una donna di carattere, intelligente, spigliata, anch’essa profondamente credente. Innamoramento, naturale attrazione fisica, ma anche reciproca stima profonda, affinità spirituale, piena condivisione di un progetto di vita li portarono alla scelta del matrimonio. Si sposarono con una modestissima festa al paese di lei, in provincia di Ancona. Andarono poi a vivere a Bari, dove Aldo cominciò a lavorare nell’università, ma ancora con contratti precari, e perciò con un tenore di vita molto modesto, in quell’immediato dopoguerra che richiedeva a tutti tanti sacrifici. La buona riuscita di un matrimonio, oltre alle affinità di fondo, è determinata anche dalla complementarietà, che diventa reciproca integrazione e sostegno. Dotata di spiccato senso pratico, Eleonora compensò alcuni aspetti in cui il marito era più limitato e le inevitabili assenze a cui lo costringeva un’attività pubblica tanto assorbente. Da quel matrimonio nacquero quattro figli. E verso di loro Moro fu padre attento e premuroso. È sorprendente leggere i ricordi dei figli: ne emerge un Moro inedito, inatteso, umanissimo. È proprio quello che ci fanno conoscere le lettere dalla prigionia. Ad esempio quando scrive al figlio Giovanni, l’unico figlio maschio, che allora aveva 20 anni e che, come spesso accade, cercava la sua identità differenziandosi dal padre nelle scelte e negli orientamenti. Ugualmente profondo e umanissimo è il legame di Moro con Luca, l’unico nipote che ha potuto conoscere, un bambino di circa tre anni che aveva completamente fatto “perdere la testa” al nonno. Con lui amava passare tutto il tempo possibile. Non avrebbe voluto staccarsene mai. Nelle lettere dalla prigionia risalta continuamente e in modo struggente l’amore verso questo piccolo nipote.
Accanto a questa dimensione familiare, Moro cercò sempre di vivere con piena dedizione il suo lavoro specifico, quello in cui sentiva di poter dare il meglio di se stesso, cioè l’insegnamento. Cominciò molto giovane. A soli 28 anni era già docente incaricato di diritto penale nell’università di Bari. Dieci anni dopo divenne ordinario della stessa disciplina, sempre a Bari. In seguito ottenne il trasferimento a Roma, come titolare della cattedra di diritto e procedura penale nella Facoltà di Scienze politiche, all’Università della Sapienza. Né il suo parallelo impegno nella politica, né i sempre più onerosi e prestigiosi incarichi di governo lo distoglieranno mai da questo impegno professionale, al quale si è sempre dedicato fedelmente e generosamente. Non mancano studi scientifici che hanno posto in giusta evidenza il contributo notevole che il professor Moro ha dato alla dottrina giuridica. Qui, invece, vorrei ricordare l’altro aspetto, e cioè il rapporto con gli studenti. Moro amava il suo lavoro e coltivava il rapporto con gli studenti. Parlare con i giovani, ragionare con loro, aiutarli a cogliere altri aspetti nella complessità delle cose gli era del tutto naturale. Dedicava loro del tempo. Si fermava nei corridoi ad ascoltarli. E i giovani studenti ne erano, anche per questo, affascinati. Si rammaricava quando i doveri istituzionali gli impedivano qualche volta di rendersi disponibile, oltre a tenere i corsi, anche a qualche attività complementare.
Poiché non aveva mai dimenticato le sue radici pugliesi, né la povertà dignitosa della sua famiglia nell’immediato dopoguerra, aveva una disponibilità particolare per gli studenti che provenivano dalla Puglia, specialmente di condizioni modeste. Conosco bene uno di quegli studenti, della nostra provincia di Brindisi, di famiglia monoreddito e con molti figli, che Moro ha seguito come relatore della tesi di laurea mentre era capo del governo. Era una tesi sulle giurie popolari in Corte d’Assise. Cosa voleva dire per quello studente salentino, di umili origini, avere il Presidente del Consiglio dei ministri che dedicava del tempo proprio a lui? Aldo Moro che accettava di fargli da relatore, si fermava con lui a rivedere lo schema della tesi, a seguirne la stesura, a firmarne la redazione finale, ad accompagnarlo fino alla laurea… E non lo faceva solo con i pugliesi. In una delle famose borse che portava con sé in macchina quando fu rapito in via Fani, c’erano due tesi di laurea che stava correggendo in quei giorni.
3. L’impegno politico: strada difficile per la santità
Fu il lavoro universitario, dunque, l’impegno più caro di Moro. Noretta, sua moglie, avrebbe voluto che si dedicasse solo a quello. E glielo chiese a più riprese, accoratamente, anche per proteggerlo, quando l’impegno diretto in incarichi di governo o di partito cominciò ad essere rischioso. Ma ad alcuni il Signore dà molti talenti, e chiede loro di non seppellirli, ma di usarli, di investirli bene e di farli fruttificare. La formazione nell’Azione Cattolica e nella Fuci aveva radicato in lui la convinzione che l’apertura all’impegno sociale è un dovere, e che la politica può essere vissuta come servizio alla polis, alla città degli uomini. Chi lo conosceva bene riconobbe in lui un talento da non tenere nascosto e inerte, ma da impiegare per il bene degli altri. Egli esitava. Si tenga presente che si era sposato da poco ed era anche all’inizio del suo lavoro nell’università. Ma la coscienza non lo lasciava tranquillo e lo dispose ad ascoltare l’invito del suo vescovo. Fu infatti il vescovo di Bari monsignor Mimmi a incoraggiarlo. Lo invitò a mettersi a disposizione della società, nell’impegno diretto della politica, alla luce dei principi cristiani, nella delicata fase di avvio della democrazia dopo il ventennio fascista e nell’arduo compito della ricostruzione, dopo il disastroso esito della guerra. E Moro disse il suo sì. A soli 30 anni venne eletto deputato nell’Assemblea Costituente. E poi sempre così, divenendo ben presto uno degli esponenti più importanti del suo partito e assumendo crescenti responsabilità di governo, come ministro degli esteri e più volte come primo ministro. Paziente tessitore di rapporti, lungimirante scrutatore dell’orizzonte, tenace nel perseguimento degli obiettivi intravisti.
Questo è l’aspetto più noto della vita di Moro. Vorrei però mettere in luce una questione fondamentale. L’impegno politico è una strada difficile per la santità. Non solo perché le tentazioni del potere sono forti, ma soprattutto perché il bene ideale e il bene concretamente possibile non sempre coincidono. La ricerca delle intese richiede mediazioni, fasi interlocutorie, tolleranza e gradualità. Richiede la capacità di guardare lontano, senza sottrarsi alla necessità di fare scelte qui e ora, in base ai dati che si hanno a disposizione. Riguardo le scelte contingenti e le strategie da adottare, però, ci può essere molteplicità di orientamento e legittima differenza di punti di vista. È necessario, dunque, che sgombriamo il campo da un equivoco. Nel tracciare questo profilo di Moro non s’intende affatto canonizzare le singole scelte politiche, o le strategie di partito, bensì il modo come egli ha vissuto questa dimensione della sua vita. Nella logica evangelica si parla di “potere capovolto”, cioè di potere come vero servizio, di potere usato non per il proprio tornaconto, ma per il bene degli altri. A questo si ispirò costantemente la vita politica di Aldo Moro. Questa fu la sua opzione fondamentale, a cui restò sempre fedele.
4. La grande prova: i giorni del rapimento
E giunse l’ora della grande prova, l’ora in cui tutte le scelte di Moro vennero messe in discussione fino alla radice. L’ora della tempesta e del buio, durante i giorni del rapimento con il suo tragico epilogo. Sono passati più di 40 anni da quei giorni e ancora ci sono tante domande. Tanti i dubbi su quello che si poteva o non si poteva fare, e sui retroscena. Mi sembra, però, che tre cose siano chiare:
1° – I brigatisti lo sottoposero a continui e snervanti interrogatori, anche allo scopo di carpirgli informazioni utili alla loro lotta armata, ma Moro non tradì lo Stato. Da questo punto di vista, quel cosiddetto processo popolare fu deludente per le Brigate rosse. Egli non rivelò nulla di ciò che si aspettavano, nulla di utile ai loro disegni criminali, nulla che potesse nuocere allo Stato e alla gente.
2° – Cercò, invece, con tutte le sue forze una via di uscita onesta per essere liberato e tornare alla propria famiglia. Portando esempi concreti di come si era agito in altre circostanze simili – nel quadro giuridico delle norme sullo stato di necessità – chiedeva di contemperare le ragioni di Stato con le ragioni umanitarie. Così si era fatto più volte all’estero, così si era deciso in Italia con i Palestinesi, così si era cercato di fare per il sequestro Sossi. Così, in seguito, si trovò la soluzione giusta anche per la liberazione del generale Dozier, per il caso Cirillo, eccetera. Per lui queste possibilità vennero scartate a priori. Ed è questo che egli contestò con forza, conoscendo dall’interno il Palazzo e i calcoli interessati che si nascondevano dietro il fronte della fermezza.
3° – Anche in quelle condizioni psicologicamente estreme, non perse mai la fede in Dio, rinnegando ciò in cui aveva sempre creduto. Fece tutto quello che poteva per salvarsi, per essere restituito alla famiglia, ma visto inutile ogni tentativo di dialogo con gli uomini, rimase immerso nel colloquio interiore con Dio, con i suoi familiari e con la propria anima: “Fatto il mio dovere di informare e di richiamare, mi raccolgo con Iddio, con i miei cari e con me stesso”.
Fermiamoci su questo terzo punto, che evidentemente è decisivo in una valutazione complessiva della sua figura di credente. Il modo in cui Moro visse quella prova suprema ci è documentato attraverso due fonti: le sue lettere dalla prigionia e le testimonianze degli stessi carcerieri e carnefici. I suoi carcerieri hanno raccontato che una delle poche cose che Moro chiese dopo il suo rapimento fu di poter avere una Bibbia. Gli venne procurata e la leggeva come conforto e luce in quella situazione in cui si era trovato all’improvviso. Chiese anche di poter seguire la Messa alla radio. Per non lasciargli in mano la radiolina, temendo che la usasse per acquisire informazioni, Prospero Gallinari gli registrò la Messa domenicale trasmessa per radio. Se voleva, poteva ascoltare solo quella registrazione. Per Moro fu un grande conforto. Anna Laura Braghetti, la donna che faceva parte dei carcerieri, ha scritto: “Prospero portò il registratore nella cella e mostrò al presidente come farlo funzionare. Ci accorgemmo che ascoltava la Messa più volte al giorno e leggeva le Epistole di San Paolo”.
In questo quadro, c’è un aspetto che non possiamo sottacere, perché riguardava il rapporto di Moro con la Chiesa ai massimi livelli, e perciò avrebbe potuto, per reazione, incrinare la sua fede. Egli confidò molto nell’intervento di Paolo VI e lo chiese espressamente, per indurre il governo italiano ad una trattativa umanitaria. C’era tra loro, come abbiamo detto, un rapporto personale, di confidenza e di amicizia, fin dai tempi della FUCI. Paolo VI, in realtà, in quei giorni si prodigò tantissimo, in molti modi. Attivò canali riservati per contattare i brigatisti: i cappellani delle carceri, la Caritas internazionale e altri. In maniera riservatissima, si offrì perfino di pagare un forte riscatto e ne fece giungere in qualche modo il messaggio a chi di dovere. Ma tutto fu inutile. Allora decise di scrivere quella lettera nobile, umile e bellissima agli Uomini delle BR: “Io scrivo a voi, uomini delle Brigate Rosse:…. mi rivolgo a voi, ignoti e implacabili avversari di questo uomo degno e innocente; e vi prego in ginocchio, liberate l’onorevole Aldo Moro”. Ritenne, però, di inserire quelle due parole che gli sembravano necessarie: senza condizioni. Si è pensato che scrisse così su suggerimento o su pressione di qualcuno, ma è un pensiero meschino. Un papa di quella levatura non agiva certamente telecomandato dal cinismo di politici interessati. Invece, ritenne in coscienza di scrivere quelle due parole, per ottenere un bene maggiore. I brigatisti però le interpretarono come il segnale che non c’era nessuno spiraglio per le loro richieste. E così pure le interpretò Moro, restando scosso e deluso. Si tenga presente che, a parte quella lettera resa pubblica, egli non sapeva nulla di ciò che il papa stava facendo in modo riservato. Fu dunque un colpo molto duro per lui, e se ne trova traccia in due delle ultime lettere. Riferendosi al papa disse con sincerità quello che pensava, tuttavia senza venire meno al rispetto e perfino compatendo gli scrupoli che Paolo VI, così sensibile, ne avrebbe avuto: “Il Papa non poteva essere un po’ più penetrante? Speriamo che lo sia stato anche senza dirlo…”. E in un’altra lettera: “Il Papa ha fatto pochino: forse ne avrà scrupolo”. Veramente per Paolo VI la morte di Moro fu un dramma. Appena tre mesi dopo, egli morì portandosi nel cuore questo dolore. Anche Moro, purtroppo, morì portandosi dentro questa ferita, per gli elementi parziali di conoscenza che poteva avere in quel momento. La delusione fu grande, eppure neanche questo potette spegnere la sua fede. E arrivò al punto di capire, sulla sua pelle, che anche la sua sofferenza poteva essere offerta insieme a quella di Gesù sulla croce e scrisse: “Ho solo capito in questi giorni che vuol dire che bisogna aggiungere la propria sofferenza alla sofferenza di Gesù Cristo, per la salvezza del mondo.”
Questa era e restò la fede di Moro. E non rimase solo nella sua espressione verticale, verso Dio. La fede agisce attraverso l’amore (cf Gal 5,6). Anche nel buio di quel carcere, in condizioni tanto avverse, questa luce di amore continuò a restare accesa nel suo cuore. La sua mitezza e la sua bontà apparvero chiare persino ai suoi carnefici, che ne furono sconvolti. Per loro all’inizio era solo un simbolo da abbattere. Non contava chi era realmente come persona, ma ciò che rappresentava. Un bersaglio impersonale. Ma stando a stretto contatto con lui per tanti giorni, lo conobbero da vicino. E questo li segnò molto. Il simbolo era diventato uomo. Erano stupiti dai tratti della sua umanità. La sua mitezza li sconcertava. Egli li vedeva e li trattava non come nemici implacabili, ma come giovani inquieti, desiderosi di cambiare la società, ingannati sui metodi da falsi maestri. Qualcuno di loro capì che ucciderlo era ingiusto e lo disse con forza ai compagni. Qualche altro entrò in dubbio, ma non vide possibilità di sbocco o non ebbe il coraggio di fare marcia indietro. Quando fu l’ora, egli li salutò senza odio. Anche per chi non era presente lasciò i saluti: “mi saluti i suoi colleghi”, disse mitemente a Mario Moretti prima di andare. Poi scesero, lo fecero stendere nel portabagagli della R4 e gli spararono.
Conclusione
Molti anni dopo quei tragici giorni, Sergio Zavoli, intervistando Moretti, alla fine lo ha incalzato sull’aspetto umano, e gli ha chiesto: “A tragedia consumata, che cosa le è rimasto, umanamente, di Moro? Che cosa l’ha più segnato di quei giorni, a contatto diretto con lui?”. La risposta di Moretti: “Per quanto sia forte il ruolo di un personaggio, la persona è più ricca….”. La persona è più ricca! E’ proprio così: la persona di Aldo Moro è più ricca di quello che i terroristi pensavano, del ruolo in cui lo avevano incasellato. Ma è più ricca anche di ciò che conoscono di lui quelli che legano il suo nome solo ad un determinato partito o a alla sua mediazione, apprezzata o respinta, per giungere ad una certa formula di governo. Ed è più ricca, dobbiamo pur dirlo, anche di ciò che l’attuale scenario politico ci offre. Resta tuttavia la sua testimonianza, che può concretamente ispirare chi, nonostante tutto, crede nell’arte nobile e difficile della politica intesa come servizio al bene comune.
*Vicario generale della diocesi di Brindisi-Ostuni
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