Reportage - 16 Feb 2022

La presenza ebraica nel centro storico di Lecce


Spazio Aperto Salento

Nel piano interrato di palazzo Taurino-Personè, nel centro storico di Lecce, dove oggi c’è, di fronte alla basilica di Santa Croce, il Museo Ebraico (Medieval Jewish Museum), già nel 1400,  c’era la Sinagoga, la Casa degli ebrei. In città non erano molti (poco più di 25mila circa in tutto il Salento), ma la loro presenza si faceva sentire. Si dedicavano soprattutto alla mediazione, e la vicina piazza Sant’Oronzo, era il loro campo d’azione. Anche grazie ad essi, lì si contrattavano, prima della partenza dal porto di San Cataldo per le Venezie ed il Medio Oriente, l’acquisto di granaie, olio d’oliva e vino, e di “lampante”, lo speciale olio prodotto a Gallipoli, che serviva per fare candele, e nei decenni a venire, per illuminare i primi fanali installati nelle grandi Capitali.

GLI EBREI ED IL CASTELLO

Per condurci nei luoghi un tempo abitati dalla perseguitata etnìa, Sara Foti, giovane guida professionista abilitata dalla Regione Puglia, assieme ad altri visitatori, ci dà appuntamento nella piazza d’Armi del Castello Carlo V. La scelta non è casuale. Nel maniero costruito nel Medioevo e via via ristrutturato in età federiciana, angioina ed aragonese, nel 1495, gli ebrei che vivevano a Lecce, vi trovarono rifugio per sfuggire alla sommossa dei cristiani, soprattutto i meno abbienti, che appellandosi alla “limpieza de sangre”, in realtà con loro ce l’avevano solo perché erano e si sentivano poveri e miserabili.  Pur godendo di qualche privilegio, quegli antagonisti spesso accusati di usura,  pagavano le tasse alla Nobiltà imperante, che per questo li proteggeva, ma intraprendenti ed infaticabili lavoratori dediti essenzialmente ai commerci, se la passavano meglio della popolazione locale, che di conseguenza, li aveva in ubbia.

La prima visita è nelle prigioni. Sui muri ai quali erano assicurati con corde e catene tenute da ganci, fra i costretti finirono anche alcuni di loro. Lo testimoniano due scritte in ebraico ancora leggibili, fra le rarissime rimaste in città. Una, composta di sole tre parole, venne impressa sulla pietra tufacea per sottolineare l’appartenenza religiosa. Per la singolarità dei caratteri, spiccano accanto ai segni, soprattutto stemmi di Casate, lasciati dagli altri reclusi, ma anche alle lamentazioni affidate a poche parole in italiano “volgare”, come quella di un Prioli, sindaco e collezionista antiquario del Cinquecento, che nelle segrete restò chiuso per trenta giorni.

LA GIUDECCA

Fuori dalla fortezza, che così come la vediamo oggi, si deve alle capacità dell’ingegnere del re-imperatore Carlo V (1500-1558), Giangiacomo dell’Acaya (1500-1570), la seconda tappa è piazza Sant’Oronzo. Dove – come s’è detto – attraverso la pratica della mediazione, gli ebrei davano concretezza agli affari. A ciò deputato, il luogo non era però l’odierna piazza dedicata al vescovo patrono, bensì l’area confinante occupata dagli scavi dell’Anfiteatro Romano, che evidentemente, non era stato ancora scoperto (venne alla luce solo nei primi anni del 1900). La piazza e l’attigua via Dei Templari, aldilà della quale, mischiate a quelle degli autoctoni, si trovavano le abitazioni degli ebrei, le “case palaciate”, era infatti occupata dalle botteghe artigiane, in testa le “capande” costruite dai mercanti veneziani.

Il quartiere abitato dagli ebrei, la Giudecca, che aperto alla città, non fu mai un Ghetto, era compreso fra la quarta Porta di Lecce, andata persa, intitolata a San Martino (si trovava poco oltre l’imbocco dell’attuale via Matteotti), e l’area, con quella detta “pittagio”, che gravita attorno a Santa Croce ed all’attiguo convento dei Padri Celestini. Per ricordarlo, oltre al Museo Ebraico, accanto alla dizione italiana, tre stradine sono nominate anche in quella lingua. Sono, proprio accanto alla chiesa di Santa Croce, vico Della Saponea, ed alle spalle del cinquecentesco palazzo Adorno-Loffredo, via della Sinagoga e via Abramo Balmes. La prima è così nominata, perché lì erano i laboratori dove si produceva il sapone, ma dove si lavoravano pure i tessuti e le pelli, queste ultime conciate nelle vasche rinvenute durante i trentennali lavori di ristrutturazione del Teatro Apollo, riaperto solo nel 2017. La seconda, per la presenza dell’omonimo luogo di culto, e l’ultima in onore dello spagnolo Abramo (De) Balmes (1440-1523), il dotto medico personale della contessa Maria d’Enghien o d’Engenio (1367-1446), che in odore di antisemitismo, ma solo perché molto vicina al Papato, assieme al figlio Giovanni Antonio Orsini del Balzo (1393-1463), fu tra gli abitanti del Castello.

In realtà, la Sinagoga non si trovava lungo l’attuale viuzza, bensì nel piano interrato del Museo Ebraico, dove nel tempo sono venute alla luce altre vasche, “mikvaot” (almeno sei), che alimentate ancora oggi dall’acqua sorgiva, corrente e non stagnante, del fiume sotterraneo Idume, venivano utilizzate per i “miqué”, le abluzioni prescritte dalle regole della purità. Tali vasche erano, ed una è ancora oggi, anche in un ampio vano sottoposto di palazzo Adorno-Loffredo, dove si trova un’altra scritta in ebraico, quella “importata” dalla Sinagoga distrutta. Tornando alla Sinagoga, della quale a palazzo Taurino-Personé restano poche tracce, la via ad essa intitolata, vale una curiosità. Con allusione alle barbe degli ebrei più anziani, ai leccesi era nota come via “te li pili bianchi”. In realtà, il bianco non era delle  barbe, bensì della famiglia di albini che abitava una casupola, la cui più importante rappresentante, era “mescia Pina li pili bianchi”, brava ricamatrice.

CITTÀ MULTIETNICA

Assieme ai giudei, quasi tutti originari della Catalogna e dei Paesi dell’Est, che per sfuggire alle angherie degli Ordini religiosi predicatori, a partire dal 1395 si allontanarono da Brindisi dov’erano assai numerosi, convivevano ragusani, fiorentini, milanesi, greci, albanesi e veneziani. La città non ancora completamente barocca, era dunque multietnica già allora. Come ci ricorda la nostra preparata guida, a partire dal 1541, Lecce dovette comunque fare a meno della loro presenza. In quell’anno, infatti, con un editto regio, venne stabilita la definitiva cacciata degli ebrei da tutti i territori del Regno di Napoli. Ma è da dire, che nel frattempo, molti ed in buona parte solo per appianare i contrasti con le popolazioni locali, si erano già convertiti al Cristianesimo (al pari dei musulmani che avevano fatto la stessa scelta, in Spagna venivano chiamati “marrani”).

La loro cacciata era comunque  nell’aria da tempo, ed in città, la prima vera manifestazione di insofferenza, fu la già citata sommossa della fine del Quattrocento, che li costrinse a trovare rifugio nel Castello, dove vennero protetti dai notabili ai quali versavano le tasse, mentre all’esterno, i rivoltosi urlavano: “Muoiano, muoiano, oppure diventino cristiani”. Ciò non impedì ai “nemici” leccesi, di assaltare, oltre alle “case palaciate”, la Sinagoga, distruggendo arredi e paramenti sacri, e soprattutto di far sì che il vescovo dell’epoca, Antonio III Tolomei, chierico in Nardò eletto nel 1485, lì portato a forza di braccia, sconsacrasse il luogo, trasformandolo in una Chiesa da dedicare a Maria Santissima dell’Annunziata dove celebrare Messa.

CONVIVENZA DIFFICILE

Se per dichiarare la propria antipatia, il popolino povero e miserabile poteva fare ricorso solo alle sommosse, ad affermare la superiorità sugli ebrei stranieri, che come segno di riconoscimento avevano l’obbligo di cucire una rotella di stoffa  rossa sugli indumenti (omne iudeo masculo e femina de anni sei in susu), pensarono la Chiesa e la stessa Nobiltà ben ricompensata con i versamenti delle tasse. In questa ottica, s’inquadra la grande Croce fiorita che svetta sul timpano della basilica di Santa Croce. E quasi certamente, l’edificio di culto più rappresentativo del barocco leccese, innalzato dopo l’abbattimento della vecchia Santa Croce, che si trovava a ridosso dell’attuale ingresso del Castello Carlo V, venne costruito a due passi dalla Sinagoga (“questa non può essere che la casa di Dio”, si legge nell’epigrafe trasferita a palazzo Adorno-Loffredo), proprio per affermare, dall’alto del suo sontuoso prospetto, la supremazia della fede cristiana su tutte le altre.

A tale, presunta superiorità, facevano comunque eco comportamenti poco ortodossi  di alcuni cristiani. Uno di essi, riguarda la disavventura occorsa a Benedetta, una delle figlie di Abramo (De) Balmes, che nel frattempo elevato a medico di Corte al servizio del Re di Napoli, Ferrante I (Ferdinando Trastàmara d’Aragona, 1424-1494), fra gli ebrei stabilitisi a Lecce, era il più importante. Durante la sommossa del 1495, affinché glieli custodisse in cambio di una ricompensa, la donna affidò i gioielli di famiglia proprio ad un cristiano, per di più  blasonato. Ebbene, a rivolta conclusa, quest’ultimo non glieli restituì affatto, affermando di averli spartiti con i rivoltosi e di aver pure tenuto una parte per sé.

Toti Bellone
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 Foto in alto: la scritta in ebraico sopravvissuta nelle prigioni del Castello Carlo V (© T.B)

 

L’ingresso del Museo Ebraico di Lecce (© T.B)

La scritta in ebraico a Palazzo Adorno-Loffredo  (© T.B)

Via della Sinagoga (© T.B)

L’indicazione in due lingue italiano ed ebraico (© T.B)

Sul prospetto della basilica di Santa Croce, la croce fiorita simbolo del Cristianesimo (© T.B)

La stradina intitolata al medico Abramo De Balmes (© T.B)

Uno scorcio di vico Della Saponea (© T.B)