Tema sociale da sempre discusso. Intervento di Rinaldo Innocente
Don Luigi Sturzo (1871-1959) ha rappresentato, a partire dai primi anni del Novecento, un punto di riferimento per tutti i cristiani impegnati in politica. Personaggio “scomodo” per avere rotto gli schemi tipici della “categoria” di appartenenza e per avere avuto l’ardire di “essere un sacerdote testimone della carità pastorale nella politica”, fu il principale protagonista della fondazione del Partito Popolare Italiano (18 gennaio 1919), progetto innovativo perché apertamente ispirato ai valori cristiani, pur schierandosi in posizione indipendente rispetto alle autorità ecclesiastiche. Era un Partito, insomma, che poneva come base la laicità, caratteristica essenziale e necessaria per confrontarsi con le altre forze politiche in campo, interlocutrici/concorrenti nell’ambito dell’obiettivo politico di assumere ruoli e responsabilità nella guida del Paese.
Il prete siciliano aveva previsto, tra le altre cose, i rischi che i cattolici potevano correre nell’esercizio dell’attività politica, ossia di diventare “partigiani” del gruppo politico di appartenenza, con la conseguenza di anteporre gli interessi del Partito a quelli del popolo. Aveva persino previsto il modo per uscire fuori da questa potenziale ambiguità, attraverso l’abbandono immediato del Partito, subito dopo avere acquisito la piena consapevolezza di avere assunto una posizione troppo di parte. Ma perché don Luigi Sturzo era preso da questa preoccupazione, peraltro manifestata pubblicamente in più di una occasione?
La risposta è insita nel fatto che, all’epoca, il clero usava utilizzare, spesso, un atteggiamento servile nei confronti dei Partiti capeggiati dai notabili locali, i quali non brillavano di certo come difensori di valori cristiani e, più in generale, di valori umani ed etici. Inoltre, era convinto che il clero dovesse acquisire le indicazioni del magistero della Chiesa, non necessariamente attraverso un impegno diretto nell’attività politica e sociale. Insomma, il nostro prete di Caltagirone a tutto pensava tranne all’idea di una “tonaca” politicante, traffichina e interessata alle faccende paesane.
Era fermamente convinto che la carità cristiana fosse il cardine dell’azione politica, individuando prima degli altri la voglia di partecipazione alla vita sociale e politica della gente. La sua idea di azione era incentrata tutta sul raggiungimento degli interessi collettivi, in contrapposizione agli interessi individuali e di parte. La giustizia sociale era il principale obiettivo, da ricercare in assoluto, in quanto la società doveva essere spinta da un sentimento, il più importante: quello dell’amore per il prossimo. Una passionalità cristiana ma, nello stesso tempo, laica.
Ma come finì questa storia?
Il Partito Popolare fu osteggiato dalla Destra e dalle stesse autorità ecclesiastiche, mentre fu sciolto da Benito Mussolini nel 1926. Fin dall’inizio, l’atteggiamento prevalente del duce fu quello di ostacolare l’affermazione sociale del Partito Popolare Italiano, preferendo un rapporto diretto con le gerarchie ecclesiastiche, anche in virtù dell’orientamento antifascista mai nascosto da don Sturzo[1].
In quel periodo molti preti abbracciarono la via della libertà, pagando con la vita questa scelta non in linea rispetto alle indicazioni dei vescovi, molto cauti nei confronti del regime fascista. Secondo stime attendibili, 190 preti furono torturati e uccisi dai fascisti, 120 dai tedeschi[2]. Per onestà di cronaca bisogna aggiungere che altri 120 furono uccisi dai partigiani[3].
Con la nascita della Democrazia Cristiana, nel 1942, il rapporto tra i preti e la politica si rafforzò, diventando quasi naturale, per i parroci, impegnarsi in prima persona, durante le campagne elettorali, a favore dei candidati politici dello Scudocrociato. La paura del comunismo e delle teorie marxiste, non certo tenere con la religione cattolica, portavano i preti a schierarsi con chi faceva della tutela dei valori cattolici e cristiani una missione politica, arrivando persino ad imporre determinati comportamenti intransigenti ad una popolazione che, nel frattempo, a piccoli passi, marciava sempre più convinta verso la laicizzazione della società.
Già nel 1949 la Sacra Congregazione del Sant’Uffizio aveva provveduto ad emanare un decreto, pubblicato dall’Osservatore Romano, il quotidiano della Santa Sede, nel quale si poneva delle domande circa la liceità, per un cattolico, di iscriversi ai Partiti della Sinistra, oppure a sostenerli apertamente, oppure a ricevere i Sacramenti nonostante l’accettazione della dottrina materialista che era alla base del pensiero filosofico del Partito Comunista Italiano. Per la verità, molti cattolici comunisti italiani non conoscevano queste teorie filosofiche e la loro adesione era spesso dettata da motivi schiettamente utilitaristici.
Il decreto, comunque, fornì le risposte (tutte negative), alle domande precedentemente poste, diffondendone il messaggio in tutte le parrocchie d’Italia, con l’onere per i preti di controllarne l’effettiva applicazione. Quindi, una gran massa di contadini e operai, cattolici, con la loro adesione al comunismo, ricevettero un appellativo che oggi definiremmo “peccatori pubblici”. Non solo: dovettero subire in molti casi una sorta di isolamento sociale, specialmente nelle piccole comunità rurali e arretrate del Centro-Sud d’Italia. Interessante, a tal proposito, risulta la lettura del seguente manifesto pubblicato dalla Curia vescovile di Piacenza nel 1949:
Le reazioni nel Pci non tardarono a manifestarsi. Del problema, infatti, se ne occupò Palmiro Togliatti in persona già nel 1946, il quale, facendosi carico delle difficoltà dei cattolici comunisti attivisti, ordinò di modificare l’articolo 2 dello Statuto del partito, dove l’adesione alla filosofia materialista del Partito venne sostituita con l’adesione al programma del Pci. Un passo in avanti dalla sponda comunista al quale fecero seguito altrettanti passi in avanti da parte della Chiesa cattolica con Papa Giovanni XXIII e Paolo VI, i quali emanarono delle encicliche, tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, che condannavano l’ateismo dell’ideologia marxista e non i Partiti comunisti in maniera diretta, declassando di fatto il decreto del 1949, mai citato nelle suddette encicliche.
Nel frattempo i preti continuavano nella loro azione di proselitismo politico attraverso le parrocchie e i Comitati Civici, nati su iniziativa di Luigi Gedda (1902-2000), in un primo momento con obiettivi anticomunisti, ovvero per evitare che l’Italia entrasse nell’orbita dell’Urss. Successivamente gli stessi Comitati Civici, diventarono sempre più strumento di propaganda politica democristiana, talvolta utilizzati in forma “personalistica” da esponenti della DC, con la benedizione del parroco di turno. Ciò accadeva in tutte le zone d’Italia, in particolare nel meridione e, quindi, anche nei Comuni del Salento, dove la “longa manus” della Parrocchia riusciva spesso a condizionare le vicende politiche locali, favorendo questo o quel candidato, specialmente se cattolico praticante e persona sensibile ai dettami della Chiesa. Questa appartenenza politico-religiosa entrò in crisi già nei primi anni Sessanta, quando, in contrapposizione “all’unità del voto cattolico intorno allo Scudocrociato”, si sviluppò il concetto della legittimazione del pluralismo politico dei cattolici, una tesi portata avanti perfino all’interno della Democrazia Cristiana. Su questo tema, peraltro, ebbe non poca influenza il Concilio Vaticano II (1962-1965) che, di fatto, avviò innovative prospettive di “aperture”, anche rispetto alle opzioni politiche “diversificate” dei cattolici. I Comitati Civici, tuttavia, negli anni immediatamente successivi continuarono a svolgere la loro funzione di sostegno alla DC e ai suoi candidati, specialmente quelli più vicini alle Parrocchie[4].
Poi è arrivato il Sessantotto. I leader studenteschi si erano formati, la maggior parte, nell’Azione Cattolica o nella Fuci. Nonostante ciò divennero, ben presto, dei “mangiapreti”, secondo lo stereotipo della tradizione della Sinistra italiana. È il periodo in cui si cantava “Dio è morto”, la famosa canzone dei Nomadi, divenuta simbolo musicale della contestazione giovanile e studentesca, fino al punto che veniva eseguita persino in tantissime chiese della penisola.
Intorno agli anni Ottanta il fenomeno della contestazione studentesca era oramai un ricordo, a favore di una visione della società più consumistica ed edonistica. Sono gli anni, in politica, “dell’ottimismo della ragione” e della novità dell’impegno politico diretto del sacerdote Gianni Baget Bozzo (1925-2009), nella Democrazia Cristiana, nel Partito Socialista e infine in Forza Italia. Per il Psi, peraltro, don Gianni fu eletto due volte europarlamentare, carica che gli costò, nel 1985, la sospensione “a divinis” (riacquistò le funzioni sacerdotali nel 1994, alla scadenza del secondo mandato). Polemista e fiero oppositore dei cosiddetti cattocomunisti, un termine che in un primo momento definiva i cattolici che avevano aderito nel Partito Comunista Italiano. Bisogna dire, però, che non furono molti i preti che seguirono l’esempio di don Gianni (aggiungerei: per fortuna!).
Venuti a mancare i Comitati Civici, i preti operai degli anni Sessanta e la fine del periodo opulento con i tentativi di un impegno diretto in politica, i sacerdoti hanno infine limitato le interferenze nella vita politica, soprattutto a livello locale. Ciò, ovviamente, con le dovute eccezioni. Il “vecchio vizio”, infatti, in determinati contesti talvolta è sopravvissuto, in alcuni casi in modo lieve, in altri in maniera vistosa e anacronistica. Bisogna dire che quest’ultimo atteggiamento stride con l’agire di molti preti esemplari. È giusto ricordare, innanzitutto, la straordinaria figura del salentino don Tonino Bello (1935-1993), presidente nazionale di Pax Christi e Vescovo di Molfetta, che soprattutto negli anni Ottanta assunse un posto di rilievo per la sua mobilitazione contro l’installazione dei caccia bombardieri della Nato in Puglia e per tante altre battaglie sociali. Un’esistenza vissuta interamente in maniera semplice, a favore della pace e accanto alle persone umili, con tante scelte coraggiose e impopolari. Don Tonino è per tutti il “Vescovo degli ultimi”. Tra i tanti altri, vescovi e sacerdoti, ricordo anche l’esempio di don Antonio Coluccia, di Specchia, la cui azione pastorale (e non) scuote le coscienze di tutte le persone che hanno un minimo di senso etico. Il fatto di sognare un Salento libero dagli affaristi e dalle mafie e di dirlo apertamente nelle sue omelie, nei luoghi di ritrovo e in ogni occasione, lo erge su un piedistallo, rispetto a chi, eventualmente, dovesse scegliere il silenzio oppure la condiscendenza o il compiacimento.
Ma oggi, quali motivazioni avrebbero i sacerdoti, soprattutto quelli a guida di Comunità parrocchiali, a schierarsi, a livello locale per una o per un’altra fazione politica? Per dare una risposta a questo quesito ci viene incontro un editoriale di maggio 2008 di padre Bartolomeo Sorge (1929-2020), direttore del mensile “Aggiornamenti sociali”, dal titolo “La chiesa, i sacerdoti e la politica”. Questo intervento di padre Sorge si apre con la citazione di alcune “considerazioni” di Sergio Romano, diplomatico, storico, saggista e accademico italiano, il quale, sul Corriere della Sera del 14 marzo del 2008, così rispondeva ad un lettore:
«I sacerdoti, quando affrontano troppo spregiudicatamente i temi della politica quotidiana, finiscono spesso per diventare i “cappellani” di un partito, di un movimento, di una corrente politica o sociale. Con il risultato che vengono corteggiati da coloro che sperano di servirsi delle loro parole e avversati da coloro che appartengono al campo opposto. Così è già accaduto nel caso dei sacerdoti che scelsero di stare dalla parte della Repubblica Sociale. Così è accaduto nel caso di padre Lombardi, “microfono di Dio”, durante la campagna per le elezioni del 18 aprile 1948, e in quello di don Gianni Baget Bozzo, consigliere di Bettino Craxi e più tardi di Silvio Berlusconi. Credo che questo interventismo ecclesiastico non giovi né alla Chiesa, né ai suoi rapporti con lo Stato, né al profilo spirituale degli interessati».
Rinaldo Innocente
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In foto: Rinaldo Innocente
[1] cfr. Francesco Malgeri, Chiesa cattolica e regime fascista, in Del Boca/Legnani/Rossi (a cura di), Il regime fascista: storia e storiografia, Editori Laterza, 1995, pp. 166-182.
[2] cfr. Frediano Sessi, Il silenzio e la gloria. I religiosi uccisi da comunisti e nazifascisti in Emilia e in Romagna fra il 1943 e il 1948, Bibliotheca Albatros, 2009.
[3] Ibidem.
[4] Cfr. Luca Leoni, La falange di Cristo. Per una storia dei Comitati Civici, Odradek, 2017.