Otranto/Tricase - 19 Apr 2025

Viaggio nel fascino delle antiche abbazie di San Nicola di Casole e di Santa Maria del Mito

Distrutte dagli invasori turchi e dalla furia degli uomini, con la leccese Santa Maria di Cerrate, costituivano un “cenobio” culturale e religioso conosciuto in tutta Europa. Al loro interno, nello “scriptorium”, i monaci amanuensi ricopiarono gli antichi codici, depositari di saggezza e conoscenza


Spazio Aperto Salento

Assieme all’abbazia di Santa Maria di Cerrate (vedi articolo del 2 luglio 2024), situata a nord-est del feudo di Lecce, nel Medioevo costituivano un asse culturale e religioso fra i più importanti d’Europa, che nell’ambito territoriale dell’antica Terra d’Otranto e dell’intera Puglia, era anzi di primissimo piano. Sono le abbazie di San Nicola di Casole ad Otranto e di Santa Maria del Mito a Tricase. A differenza di Cerrate, oggi bene Fai, tornata a splendere dopo una lunga ed accurata opera di restauro, di esse è rimasto assai poco, ma anche così, quel che resta, testimonia il valore che le riguarda. Un valore di assoluto pregio artistico ed interesse storico. Tanto più importante, almeno nel conto di Casole, da spingere l’allora papa Bonifacio IX (1350-1404), all’anagrafe di Casarano dove nacque, Pietro Tomacelli, ad investire i monaci casoliani, dell’arduo compito di gestire l’amministrazione di tutti gli altri monasteri-abbazia sparsi per l’Italia, compresi quelli capofila di Santa Maria in Patire di Corigliano-Rossano e di Santa Maria di Grottaferrata.

SAN NICOLA DI CASOLE

Appena fuori dalla Città dei Martiri, in direzione Porto Badisco, oggi come ieri, nella località detta “Palascia”, San Nicola di Casole insiste all’interno dei confini otrantini. Di fronte al mare che s’apre giù in fondo alla scogliera irsuta, all’orizzonte di un lungo e stretto viale alberato, una vecchia casa rurale, di proprietà privata, nasconde i resti di quello che fu un grande monastero, ponte di unione e transito tra la cultura orientale e quella latina. Un monastero che, a dare credito alla tradizione, venne fondato poco dopo l’anno Mille, e dunque in epoca normanna, da Boemondo I di Antiochia (1058-1111), il comandante militare della Prima Crociata, noto anche come Boemondo principe di Taranto, figlio di Roberto il Guiscardo (1016-1085).

L’ingresso

In realtà, del monastero di San Nicola, poi detto di Casole, perché oltre a chiesa, altari e cripte, numerose contava le “casupole” all’interno delle quali i monaci si fermavano a pregare, la storia narra sin dall’VIII secolo, all’epoca in cui era abitato proprio dai monaci, in ispecie basiliani, il cui primo abate o igumeno, fu un tal Giuseppe. Col tempo, dando vita ad un vero e proprio “cenobio” non solo religioso, a Casole si insediò un gruppo di letterati di formazione greca, fra i quali un altro abate, Niccolò Nettario o Netterario da Otranto, un Giorgio di Gallipoli ed un Giovanni Grasso, anch’egli di Otranto; e poi anche, il mosaicista greco-idruntino Pantaleone, autore del monumentale mosaico pavimentale del XII secolo, che continua a brillare nella sontuosa Cattedrale otrantina. Ad essi si deve l’apporto dei primi libri, scritti in greco e latino, fra gli altri, di Giovanni Damasceno, Gregorio di Nazianzo e Cirillo di Alessandria, che mano a mano, diedero forma e vita ad una fornitissima biblioteca italo-greca, destinata ad ergersi fra le più importanti d’Europa.

E che dotata dello “scriptorium” dove si avvicendavano gli “amanuensi” per la copiatura, spesso impreziosita da decori, dei codici pergamenacei manoscritti, sia di natura religiosa che profana come il “Physiologus graecus”, finì per caratterizzarsi come una sorta di Università, che aperta a tutti, si dotò pure di quella che oggi diremmo “Casa dello studente”. Per secoli, infatti, ad essa, prima della distruzione, nel 1480, ad opera dei Turchi invasori, attinsero studiosi e scienziati d’Occidente ed Oriente, fra i quali il cardinale e filosofo basiliano Giovanni Bessarione (1403-1472), metropolita di Nicea e patriarca di Costantinopoli, ed il monaco di rito greco, nativo di Zollino, Sergio Stiso (1458-1535), che avvezzi al prestito dei volumi, senza saperlo, finirono per salvare quelli che non avevano ancora restituito. Fra questi, il prezioso “Typikòn casulanu”, conservato a Torino nella regia biblioteca dell’Università (altri sono a Roma nella biblioteca Vaticana, a Venezia nella Marciana, a Firenze nella Medicea, a Madrid nella Nazionale ed a Parigi nella Sorbona), nel quale si descrive la giornata-tipo, fatta essenzialmente di preghiera, digiuni e pasti frugali, dei monaci. Nell’economia dell’abbazia, questi ultimi, erano suddivisi in igumeni, vale a dire abati, che ricoprivano la più alta carica ecclesiastica; ieromonaci, sacerdoti che si occupavano delle celebrazioni religiose; ecclesiarchi con il compito di custodire la chiesa ed i suoi arredi e suppellettili; bibliofilaci, deputati a custodire la biblioteca, e protocalligrafi, che si dedicavano alla stesura e copiatura dei codici.

LE ROVINE

Porzione mura

Del complesso monumentale, che doveva essere a pianta rettangolare, orientato da est ad ovest come si usava per le chiese di rito greco, e che fino alla metà del 1500 fu il centro del Monachesimo italo-greco in Puglia, la furia degli uomini, più che quella del tempo, ha risparmiato solo qualche tratto delle mura perimetrali, i cui punti d’incontro, almeno nelle angolature, erano caratterizzati dai “costoloni” tipici dell’arte gotica. Fortunatamente, si è salvata pure parte dell’abside semicircolare, in un angolo della quale, sono tracce di un affresco di modeste dimensioni, raffigurante un vecchio barbuto con le mani alzate al cielo.

Colonne “sopravvissute”

Ancora in piedi, del luogo di culto così fortemente mutilato, sono le possenti colonne interne, che con le molte altre andate perse, sorreggevano il tetto in muratura, realizzato seguendo lo stile romanico, al di sotto del quale vennero aperte numerose finestre, di cui solo due sono rimaste intatte. Su una delle colonne, racchiusa in una cornice appena accennata, è la firma con la data 18 dicembre 1569, di un probabile pellegrino, Horatio Zappo, forse spintosi sino al più orientale angolo d’Italia, per onorare gli ottocento martiri cristiani dell’eccidio compiuto ad Otranto dai Turchi.

Il sarcofago

All’ingresso della masseria, sul cui sfondo giacciono le rovine introdotte da un percorso sterrato sul quale insistono alcuni profondi solchi, quasi certamente residui di una strada d’epoca romana, un altro pezzo di storia regala un sarcofago. Che adattato al servizio di un pozzo attiguo, quasi certamente venne costruito con i ruderi dell’antica chiesa distrutta dagli invasori giunti da Oriente. Dopo i danni provocati dall’orda turca, che in un colpo solo annientò la bellezza e la dottrina, irradiate in tutto il mondo allora conosciuto, dall’abbazia di  Casole, il cui massimo splendore si manifestò fra l’XI ed il XIII secolo, Papa Clemente VII (1478-1534) tentò la ricostruzione del monastero, che fu anche scuola pittorica dove fra gli altri, si formarono gli autori dei mirabili affreschi della cripta di Carpignano, Eustachio e Teofilatto, ma si fermò alla sola chiesa, che in seguito venne  abbandonata a se stessa, sino al completo disfacimento, avvenuto nel 1800.

SANTA MARIA DEL MITO

Porzione mura

Se quel che resta di San Nicola di Casole, sino ad ora colpevolmente digiuna di restauri e conservazione, continua a reggersi su se stessa, per quanto spogliata, nei secoli, di colonne, capitelli, anfore, e persino conci di tufo e pietre basolate, così non può dirsi per l’abbazia di Santa Maria o Madonna del Mito o de Amito. I resti di quello che anche col nome di San Tommaso del Mito o di Amito, fu un altro importante centro religioso e culturale in Puglia, fondato fra l’VIII ed il IX secolo dai monaci, detti anche calogeri, seguaci del vescovo e teologo greco antico Basilio di Cesarea (330-379), poi venerato come San Basilio da tutte le Chiese cristiane, sono stati infatti oggetto di un accurato recupero, grazie all’amore per il bello di una famiglia tosco-umbra.

Resti della chiesa

Per Alberto Brunelli, in vacanza nel mare di Castro, l’incontro con il sito archeologico abbaziale che sorge al confine fra i territori comunali di Tricase ed Andrano, poco distante dalla Torre di avvistamento detta del Sasso, fu amore a prima vista, nonostante la ferita della strada asfaltata, che letteralmente lo taglia in due, proprio all’altezza del punto in cui sorgeva la chiesa, che come testimonia il frammento di un dipinto, doveva essere riccamente affrescata. Di essa e dell’intero Salento, che definì “terra della bellezza”, s’innamorò pure la madre, la nobildonna Paola Menesini Lemmi di Montescaglioso, ed il comune sentire portò all’acquisto, poco dopo l’Anno Duemila, dell’intero complesso abbaziale, che già nel Seicento, a causa delle scorrerie dei pirati saraceni e delle ripetute spartizioni di terre fra i vari feudi del Capo di Leuca, versava in stato di abbandono, tanto da essere trasformato, poco prima del 1700, in una masseria.

Torre colombaia

Oltre a ciò che rimane della chiesa, sconsacrata nel 1878 e definitivamente crollata negli Anni Sessanta del secolo scorso, e cioè la pregevole facciata con ai piedi nove tombe sepolcrali, sono sopravvissuti porzioni delle mura di cinta, una torre colombaia con sei scale interne, alta sette metri per quindici di diametro, l’attigua costruzione già casa del vescovo, ed una cisterna all’interno della quale vennero alla luce cinque monete d’argento ed una d’oro, d’epoca normanna e sveva.

L’uliveto

In un angolo del grande giardino lungo il quale spicca pure un bell’uliveto, sul fondo di un silo utilizzato come granaio e fors’anche come ossario, è stata inoltre ritrovata una lastra in pietra calcarea di forma quadrangolare, che nei dodici riquadri in cui è suddivisa, presenta altrettante lettere dell’alfabeto greco, che la fanno somigliare ad un “astrolabio”, lo strumento astronomico utilizzato in antichità per calcolare la posizione del sole e delle stelle.

LA RINASCITA

Dopo cinque anni di restauri e scavi archeologici, Santa Maria del Mito fortunatamente strappata alla completa distruzione, rinasce nel 2015, con una vera e propria cerimonia di inaugurazione e l’ideale ritorno al tempo in cui, anche qui come a Casole, si era formato un “cenobio”, con annesso “scriptorium”. Al giorno della rinascita, infatti, donna Paola Menesini Lemmi ed il figlio Alberto, per celebrare la messa, fecero intervenire il vescovo di Ugento-Santa Maria di Leuca, Vito Angiuli, e persino il diretto discendente del sommo poeta fiorentino Dante, Pier Alvise Serego Alighieri. Da quel momento, nel solco della millenaria tradizione, l’antica abbazia un tempo tenuta in conto, come attesta un documento del 1533 dell’Università di Tricase, anche da re Carlo V d’Asburgo (1500-1558), si è via via popolata di artisti, letterati e gente comune, in testa un altro dei cinque figli della nobildonna di Montescaglioso, il ghost writer Giovanni, anch’egli artista, che come un novello igumeno, alla fine l’ha scelta come residenza fissa.

Toti Bellone
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Immagine in alto: Otranto, primo piano dei “costoloni” (© T.B.)

 

Tricase, particolare di una delle colonne sopravvissute (© T.B.)