Lo studioso salentino Chirizzi offre la sua analisi di “Ricordi e racconti”, un testo locale con “quadretti, medaglioni e saggi” riguardanti "vicende minori” del passato di Salice
I temi della “memoria” e della “custodia” del passato, dell’identità culturale di un territorio, delle tradizioni e dei costumi di una comunità, continuano a generare l’attenzione di storici e ricercatori locali. Dopo l’intervento di Paolo Agostino Vetrugno, storico dell’arte e autore di numerosi testi scientifici riguardanti il Salento, interviene anche lo storico salentino Gino Giovanni Chirizzi (ha firmato, fra l’altro, il volume “Salice nel Cinquecento” pubblicato nel 2011). Lo studioso monteronese si sofferma sul libro “Ricordi e racconti. Alla ricerca del paese perduto” (Edizioni Publigrafic, Trepuzzi, 2009, pp. 120), di Ciccio Innocente, Ninì Urbano e Antonio Scandone, presentato a Salice, nella chiesa matrice “Santa Maria Assunta”, il 4 gennaio 2010. Chirizzi, che era fra i relatori della serata, sostanzialmente ripropone le considerazioni fatte in quell’occasione. (r.f.)
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Una prima considerazione: si dice spesso dobbiamo guardare al futuro, dobbiamo costruire il futuro; ma contemporaneamente ci rendiamo conto che bisogna tener salde le radici. Difatti – l’ho sempre sostenuto – dalle radici parte la linfa che nutre l’albero e lo fa crescere: senza le radici, dunque, l’albero – e fuor di metafora il futuro – non dà foglie, né frutti.
Ricordi e racconti, Alla ricerca del paese perduto, di Ciccio Innocente, Ninì Urbano e Antonio Scandone, risponde appieno a questa pressante esigenza: è una raccolta che, nel riproporre il passato alla maniera di Marcel Proust (À la recherche du temps perdu), si proietta al futuro, si rivolge alle nuove generazioni.
Vi troviamo quadretti, medaglioni e saggi di agile lettura; è un testo che, pur peccando a volte di sviste e refusi tipografici, riesce a coinvolgere e a suscitare grande interesse. Del resto esso accomuna gli sforzi di tre salicesi, fra loro uniti dall’amore per il borgo natio, pieni di entusiasmo e di voglia di registrare (e comunicare) ai compaesani le vicende minori di un passato altrimenti per sempre perduto. E questo è il loro merito principale.
Nell’opera la parte del leone è di Ciccio Innocente, il quale si offre al lettore con ben 18 pezzi: questi, scaturiti dall’appassionata consultazione di tanti atti dell’archivio parrocchiale, costituiscono una ricca antologia in cui, in maniera sempre spigliata – se non esuberante e a volte con eccessiva fantasia – si susseguono e si sgranano come un rosario di curiosità, fatterelli, episodi spiccioli, personaggi, ambienti, insomma la cronaca minore soprattutto del Sette-Otto-Novecento salicese.
Dopo il perentorio suo invito iniziale a creare in loco un museo delle tradizioni locali (di cui riporta un’ampia raccolta di termini idiomatici), ci parla del castello (il cui piano superiore ebbe a crollare nel devastante terremoto del febbraio 1743 – non del 1744! –), dei mercanti girovaghi con le loro voci e suoni, racconta dell’albero del diavolo nella contrada Santu Larenziu e di uno scherzo di cattivo gusto dei tempi andati, ma pure delle anime che escono a mezzanotte in un’atmosfera irreale e piena di tensione e mistero; rivisita gli anni della fame e della miseria con lo sfarinato d’orzo che impastato e cotto diventa lu squajatu; i giorni della siccità, le superstizioni e la processione della statua di S. Francesco con la solita acciuga in bocca e vere e finte penitenze propiziatrici; tratta del convento, prendendo spunto – come è prassi – dagli storici locali Quarta e De Nisi (con i loro testi ufficiali – direi sacri – ma ormai datati e forse per molti aspetti superati e con qualche errore, specie quello del copertinese Quarta).
Ciccio Innocente ci informa, poi, della fortuita scoperta dello scheletro di un giovane sepolto fuori dalla chiesa: crede di poterlo identificare con un brigante…; ci fa sapere dell’acchiatura, un tesoro scovato nel pozzo te li quaji, che arricchisce una famiglia; riporta alla memoria due preti d’altri tempi, due macchiette, papa Tore e papa Pici (quest’ultimo dedito a prestiti di danaro ai conterranei in difficoltà).
Ma Ciccio si commuove – e ci commuove – nel pezzo Raccogliendo cicorie dinanzi alla morte per avvelenamento della quattordicenne Lazzarina e ricorda la fiera del ’43, bruscamente interrotta dai bombardamenti.
Ritrova quindi le proprie radici in un contratto di matrimonio – del 1670 – (con relativa dote) riguardante un suo antenato: a questo proposito mi sia permesso evidenziare che già nei notai del Cinquecento si conservano elenchi dotali, cioè di pannine, come le nostre nonne definivano i corredi ancora qualche decennio fa (nella mia Salice nel Cinquecento ne ho riproposti taluni degli anni 1562-71).
Ancora il nostro Ciccio, nel brano Tata mia, prende atto con grande sofferenza della mortalità specie infantile dei secoli andati, quando inopinato morbo improvvisamente si passava da questo all’altro mondo; ricostruisce la storia plurisecolare della campane di questa Matrice, racconta di un altro tesoro (fatto di tredici sacchetti di monete) rubato ad una famiglia benestante e, infine, rivede per noi le decorazioni pittoriche settecentesche dei vari settori del controsoffitto della chiesa in cui ci troviamo stasera.
Al sottoscritto, professore pignolo, spiace però che qualche parte in lingua latina (peraltro da me per lui decifrata e chiarita) sia stata riprodotta con diversi errori (imputabili all’editore o ad altri) e che, nel contratto di nozze, la conclusione nulla abbia a che spartire con il resto della scrittura notarile. La fretta di presentare l’opera forse ha avuto il sopravvento… sarebbe opportuno inserire un’errata corrige!
Ad ogni modo, è certamente doveroso rimarcare i tanti meriti di Ciccio Innocente, soprattutto la sua tempra di ricercatore tenace e attento e il piacere di divulgare le sue scoperte, con un linguaggio normale, semplice ma gradevole.
Tre i contributi di Ninì Urbano. Sorprende la sua espressione sempre scorrevole, ricca di sfumature, di penetranti osservazioni, molto avvincente: con pennellate rapide ma vivaci e puntuali l’autore ritrae una umanità dolente, spesso ingenua e sottomessa, povera materialmente e spiritualmente; in particolare i personaggi da lui descritti s’imprimono nella mente, ci turbano e comunque ci fanno riflettere.
Il primo brano è intitolato Dindò e narra di un vecchio «disgraziato martire» della «innocente ferocia» dei ragazzi del paese negli scorsi anni Cinquanta: è «ricco di null’altro se non di solitudine».
Deriso e maltrattato in vita, alla sua morte tutti ammutoliscono e inavvertitamente scoprono… d’avergli voluto bene.
Sul palco di questo pirandelliano teatro popolare compare subito dopo un altro tipo, fra Giovanni, chiamato Domai, domai (unione dei termini «domani» e «mai»), espressione da lui utilizzata quando i ragazzini gli chiedevano figurine di santini senza corrispettivo di un’offerta. Fra Giovanni era un frate del locale convento, ‘nu monico cercantino, lui pure senza tempo, umile anzi insignificante, «sorridente e silenzioso, non visto». «Chi si umilia sarà esaltato» sembra di leggere fra le righe.
Il trittico si completa con le scene familiari e paesane di Lu pane fattuccasa, in cui con voluta nostalgia si rievocano tutti i rituali annessi e connessi alla cottura del pane.
Chiude l’opera un’altra trilogia, quella di Antonio Scandone che, con una prosa ampia e ben articolata, sempre chiara e senza fronzoli, ci dà la ricostruzione lucida di episodi e situazioni di vita vissuta, di vere e proprie tragicommedie.
Ci ritroviamo dapprima in pretura per assistere – noi pure – al processo per… un furto di fichi, compiuto in agro di Salice alla fine dell’Ottocento, protagonisti due campioti: si tratta di un episodio già pubblicato e da me letto con gusto nella rivista “Il Salice”.
Ancora L’acchiatura è l’argomento del secondo brano: vi si racconta del rinvenimento pure casuale di un tesoretto di monete antiche. Ed egualmente in esso, il dialogo ideale tra documenti, luoghi e memoria «forma il tessuto e la trama di quel prodotto della cultura umana che è sempre la Storia» – sostiene Scandone –, così come – aggiungo io – la microstoria, la piccola storia o storia locale.
Interessantissimo, infine, il terzo saggio sulle Vie di Salice nell’Ottocento. Esplicitamente l’autore confessa d’aver desunto gli odonimi da Quarta e De Nisi, ma pure dallo Stato civile comunale.
Forse qualche ipotesi interpretativa (per esempio, di tipo glottologico – viro / januarius –) non è condivisibile, ma la ricostruzione appare senza dubbio di notevole valore.
E, visto che in appendice lui cita alcune indicazioni toponomastiche cittadine (presenti in Salice nel Cinquecento), voglio ricordare che nel mio studio riporto solo toponimi relativi – in particolare – al capitolo Le istituzioni di cristiana solidarietà.
Esorto perciò Scandone o altri studiosi a recarsi nell’archivio di Stato di Lecce o nell’archivio diocesano di Brindisi – Biblioteca “De Leo” – per analizzarvi, purtroppo con lunga e solerte pazienza di mesi e di anni, rispettivamente (a Lecce) gli atti dei notai salicesi del Cinquecento – D’Oria, Grasso, Capuzzello – e (a Brindisi) i documenti della stessa epoca.
Se vorranno affrontare tale improba fatica, avranno la soddisfazione di venire a conoscenza della toponomastica più antica di Salice (dell’abitato e del territorio) e con facilità confrontarla con l’attuale.
Gino Giovanni Chirizzi
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Foto il alto: P. A. Vetrugno (a sinistra), G. G. Chirizzi (a destra)
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